Onde gravitazionali.
Sono ormai tre giorni e tre notti che son in preda all’onda gravitazionale. Un vecchio surfista mezzo pazzo e mezzo cieco che cavalca l’onda più grande e terribile, l’onda nata nel fondo più fondo dell’Oceano nell’attimo stesso della sua origine e che ha aspettato un miliardo e mezzo di anni per prenderselo e portarselo via. Non avrò mai ragione di quest’onda, non ho modo di misurarla, non ho modo di governarla, posso solo cercare di non farmi inghiottire dal suo vortice mostruosamente inumano, dal suo indicibile cuore pulsante. Prima ancora che esserne inghiottito è probabile che perda del tutto la testa.
L’onda gravitazionale. Mammamia. C’è, è passata da qui, l’hanno sentita. C’è, e l’Universo non ha più misura, prendiamo i nostri strumenti cognitivi, tutto l’armamentario su cui abbiamo creduto di imbastire una passabile idea della realtà e portiamoli al Cercantico, che magari a qualche fissato di modernariato possono ancora interessare. E prendiamo pire i nostri occhi, quelli con cui abbiamo guardato ogni cosa lassù e quaggiù e portiamoli da qualche oculista santone e luminare che ce li rettifichi, che ce li faccia adatti a guardare quello che c’è ma non abbiamo sguardo per vedere. E stringiamoci forte il petto, perché non ci si dilegui l’imperativo morale custodito nel nostro cuore, visto che il secondo verso del distico, il cielo stellato sopra di noi, è pura e semplice illusione, preistorica superstizione. Luci e ombre proiettate sulla roccia della nostra povera caverna. Per non parlare degli orologi, che già si sapeva che servivano a poco, ma adesso abbiamo la certezza che ci dicono solo pietose bugie, anche quelli atomici, anche quelli. L’onda gravitazionale è questo, è ricominciare tutto d’accapo a cercare di capire dove siamo, e finché non si capisce dove siamo è anche difficile capire cosa siamo; anzi, proprio non si può capire.
Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. Non è forse per questo che si sbatte tanto canoramente Franco Battiato e ci sbattiamo tutti noi, intonati e stonati che siamo? Ecco, l’abbiamo trovato, e l’onda che ne dilaga ha sussurrato ai nostri orecchi, addirittura melodiosa, che lo spazio e il tempo sono tutto meno che permanenti, e le cose e la gente possono anche essere qui, ma possono anche non esserci, a cavallo dell’onda o sprofondati nell’onda. E dovremmo cambiare idea su tutto quanto. Non lo faremo, perché non è umano essere così pronti mentalmente e spiritualmente, così elastici e dinamici nella capacità di comprendere e immaginare, così sagaci nel mettere a fuoco il nostro sguardo sul cielo stellato sopra di noi. Comunque non io, che sono tre giorni e tre notti che cavalco sull’onda e intanto compulso tutto l’inerente reperibile sotto forma di tabelle, schemi, spieghe, animazioni e interviste, e appena mi sembra di capire precipito giù lungo la scura spuma del suo cavo. I meccanici quantistici, i ricercatori della materia oscura, i fisici degli ammassi, loro capiscono, ma non so se sanno immaginare quello che sanno. Uno sì, di sicuro, il vecchio Albert. Lui ha capito e ha visto, lui ha pensato e ha immaginato. Ma forse lui non era umano, non propriamente. E mentre sono lì sull’onda che mi sembra di capire, mi viene in mente e vado nel pallone. Dunque, constato, ci sono voluti cento anni, un secolo, perché nei più grandi centri di ricerca le migliori menti elaboratrici e realizzatrici mettessero in opera le tecnologie utili e necessarie alla verifica di quello che lui aveva visto e capito con le uniche due tecnologie che aveva a disposizione, le connessioni neuronali del suo cervello e una matita con qualche pezzo di carta sotto. Un secolo del meglio che abbiamo per arrivare a quei pezzi di carta. Quell’uomo, se era poi davvero un umano come tutti quanti noi segnato dal peccato originale, e io ne dubito, ha senz’altro immaginato, ha visto, non solo capito. I’ve seen things you people wouldn’t believe, ho vito cose che voi umani non potete immaginarvi. Già. Il tempo e lo spazio ondeggiare percorsi da correnti gravitazionali, esitare e annientarsi sull’orlo di una coppia di buchi neri in procinto di collassare e farsi largo in un altrove universo… Io non ci riesco, io a malapena riesco ad arrancare fino al culmine della collina, sedermi al riparo di una siepe e vedere se almeno ce la faccio a stare a sentire il sovrumano silenzio e a dare un’occhiata agli interminati spazi nella incerta speranza che se devo naufragare che almeno sia cosa dolce.
Il Secolo XIX, 15 febbraio 2016