Olio
Quest’anno la chiudenda di ulivi Ghiaccioli di mio suocero gli ha dato un bel di più di quanto gli ha chiesto. Tolto il quintale e mezzo di olio per il consumo della famiglia, gli sono avanzati cinque quintali che il consorzio gli ha pagato 8 euro al chilo. Per capire che olio fa mio suocero, fate conto che il suo compenso va moltiplicato per quattro perché arrivi in bottiglie da mezzo litro sugli scaffali dei negozi di Milano, e per cinque e sei nei negozi di Londra, di Tokyo, di Pechino. Il effetti, le olive ghiacciole sono il cuore aromatico dell’olio Brisighello, raro, prezioso direi, di culto. Pur essendo un piccolo produttore, e pur essendo anziano e conservatore, mio suocero non si può dire un produttore all’antica. Con i suoi colleghi oleari del distretto del Brisighello si è riunito in consorzio, hanno messo a libro paga un agronomo con un pedigree da premio nobel, si sono fatti un frantoio che sembra una base spaziale, hanno un ufficio marketing. L’agronomo gli fa visita spesso durante l’anno nella sua chiudenda, controlla le piante, gli segna i trattamenti da fare e i tempi in cui farli, alla stagione, e cioè un paio di settimane fa, è andato a segnare sulle piante con un gessetto il giorno preciso della raccolta, questa lunedì, questa mercoledì e così via, tutto quanto molto preciso quando si tratta di fare l’olio Brisighello. Ora io quest’olio lo uso quotidianamente, anche se devo dire che mi fa venire un po’ le sferze l’idea di stare lì a fare il ragù con un olio da minimo trenta euro il litro, e devo dire che sì, è buonissimo, è profumatissimo, è unico, ma non è che mi fa andare fuori di testa. Infatti non vedo l’ora che mi arrivi la solita tanica del mio amico Gianfranco con dentro il suo olio, olio di oliva Pizzuta di Nardò, coltivata nella sua chiudenda salentina, franta nel frantoio del posto che non è spaziale ma assomiglia solo a quello che è, un vecchio frantoio salentino con attrezzi di vecchio acciaio tarantino che fa le cose per bene. La Pizzuta è un’oliva di lignaggio umile e non tanto produttiva, resistente, questo sì che è di inestimabile valore, alla xylella; l’olio che ne viene non è IGP, non è bio, non si trova a New York e nemmeno a Milano, quello che gli avanza Gianfranco lo da al frantoio per tre euro al chilo; ma non c’è niente da fare, mi piace più di quello di mio suocero. Adesso che è nuovo e è la stagione dei carciofi, mi basta comprarmi quattro cimaroli sardi e farci un pinzimonio con l’olio di Gianfranco per fare il mio ingresso nel giardino dell’Eden. Per non parlare di come ci sta sullo stoccafisso lesso contornato da un paio di cipolle e di patate, da far girare la testa.
Il fatto è che l’olio ha a che fare con il sacro. Come il pane. L’olio e il pane sono gli alimenti ancestrali, sono radicati nella parte più intima dei nostri sensi del gusto, dell’olfatto, del tatto; sono qualcosa di più che la parte fondante della nostra cultura alimentare, sono la nostra stessa vita così come si è conformata negli ultimi diecimila anni. Sacri perché la vita è sacra e loro ne sono la fonte. E siccome l’antropologia umana è un processo di mutamenti molto lento, possono cambiare le economie, i sistemi sociali, le mode, ma i fondamenti di ciò che siamo permangono, resistono. Per questo non possiamo fare a meno di comprare il pane, anche troppo, e l’olio, e nutrircene come qualche millennio fa; e nel farlo, da qualche parte dentro di noi risuona ancora la presenza della loro sacralità. E siccome non c’è nulla di più soggettivo e bizzarramente individuale del rapporto con il sacro, ecco che ognuno ha il suo pane, ha il suo olio. Anche nell’epoca della standardizzazione universale. Vi siete mai chiesti come mai ci sono ancora mille tipi di pane? Certo, ci provano a massificare, a fare il pane globale, e anche l’olio, ci provano tutti i giorni. Ma non funziona, e in una famiglia di quattro persone sarà ben difficile mettere d’accordo tutti sul pane e sull’olio. A meno che non sia il bisogno a fare l’accordo, allora tutto va bene, bisogna farselo andare bene. Anche il più renitente degli adolescenti è in grado di capire cos’è il pane e cosa l’olio, e sapere quale è il suo, basta dargliene l’opportunità. Che non è di tutti. Io questa opportunità ce l’ho, sono a tal punto un privilegiato che posso snobbare l’olio Brisighello, ma la gran parte della gente è costretta a nutrirsi di pane gramo e olio scadente. Che si riconoscono alla prima annusata e al primo morso perché non sanno di niente. E la vera miseria nera, quella che da economica diventa anche culturale e arriva già giù a intaccare l’ancestrale sentimento del sacro, è quando ci riduciamo a convincerci che il solo fatto che non sappiano di niente è già qualcosa, è già una conquista, potrebbero anche essere cattivi, disgustosi, e fare anche male. E siccome di conquista si tratta, allora non possono che piacerci.
Il Secolo XIX, 15 novembre 2015