Maurizio Maggiani: Voglia di pattuglioni
Sono quattro anni ormai che non vivo più nel Centro Storico. Ora vivo a Castelletto, in una piccola casa dove sedo la mia anima con il profumo di un vialetto di tigli; la sera mi siedo sui gradini di sant’Anna e lì la luce è così dolce e il silenzio così leggero, che posso pensare al mondo come a qualcosa di tollerabile. Nel mio quartiere la gente mi saluta per strada e allo stesso modo saluta la signora maghrebina che vende fiori all’angolo della rosticceria.
Nel mio quartiere il vecchio arabo davanti alla pasticceria è aiutato a curarsi dalla gente che abita lì attorno. Nel mio quartiere la parrocchia è un centro sociale dinamico e fantasioso; nel mio quartiere la scuola elementare è in prima linea quando c’è da difendere la pubblica istruzione e la sua qualità.
E poi il mio quartiere è tutto quello che è Castelletto nella mente dei genovesi, bene o male che sia.
Di certo vivo in un posto riposante, confortante e luminoso, poco eccitante ma assai adatto a un uomo che vive e si procaccia da vivere lavorando a casa, scrivendo storie che estrae dalla miniera di un’anima sempre in tormentoso e tortuoso movimento. Posso dunque pensare di aver lasciato la casa del Molo e quella di Cernaia per vigliaccheria, per la fatica, anche fisica, di vivere nel cuore complicato della città, così adatto alla meraviglia, fascinoso fino ad estenuare. Ma non me ne sono andato per paura, questo no.
Per caso o per miracolo, non ho mai, per tutti i venti anni che l’ho frequentato, subito un danno o un’offesa, mai stato rapinato o minacciato o che altro. E ho vissuto in Maddalena alla fine degli anni Ottanta, quando si sparava per i caruggi, quando la tossicodipendenza aveva generato una aggressività molto pesante e invadente.
A dire il vero, me ne sono andato in coincidenza con l’arrivo da Castelletto, da Albaro, da piazza Martinez e persino da via Chiodo, dei giovani architetti, dei giovani avvocati, dei giovani grafici, dei giovani manager, e dei giovani osti e dei giovani ristoratori; compagnia oltreché stimolante e rigenerante, bonificatrice. Ho degli amici tra loro, come ne ho tra i vecchi abitatori, quelli che sono rimasti attraverso le epoche e le bonifiche. E mentre io continuo a vivere il Centro svagatamene – in virtù della vecchia consuetudine e, immagino, perché alla fine me ne torno a dormire a Castelletto – loro, gli amici, hanno preso ad avere paura, a vivere nel loro sestiere con angoscia e incertezza.
Presto comincerò ad avere paura anch’io. E la paura, a me come a loro, non viene da vaghe e indistinte sensazioni di insicurezza, ma dal fatto, puro, semplice, materiale, delle aggressioni violente, gratuite e feroci delle bande di giovani latini. È una cosa nuova, ed è angosciante e inquietante proprio perché inaspettata oltreché indesiderata. Genova è riuscita nel tempo a non avere un pesante problema di immigrazione. Siamo alla terza generazione di immigrati africani, alla seconda cinese. Naturalmente con reciproca fatica, alla fine la città e gli immigrati hanno trovato una forma di integrazione.
Credo che parte del risanamento del centro sia dovuto alla quantità di negozietti e micro imprese che gli immigrati gestiscono nelle vie meno appetite, quelle che fino a pochi anni fa erano sporchi deserti. Non saranno boutique, ma sono un buon segno. E hanno clienti di ogni etnia, compresa l’indigena genovese. Ma i nuovi arrivati, i giovani maschi dominicani, ecuadoriani, sono un’altra cosa. Non ho grandi teorie al riguardo, ma vivere la vita quotidiana è una cosa molto pratica e concreta, e praticamente, concretamente vedo che sono un’altra cosa.
Vedo le ragazze, le madri di famiglia che lavorano 24 ore al giorno con dedizione ignota a me stesso, vedo i loro mariti, i loro fratelli i loro figli, appena ricongiunti, conversare sin dal mattino con pittoresco accanimento nelle piazze che si sono scelti, dissetarsi assiduamente con birra Heineken, confortarsi diuturnamente con la loro musica, scazzottarsi generosamente in nome di urgenti questioni d’amore. Demasiado corazon.
Mi sbaglierò, ma temo che questo stile di vita rilassato sia loro permesso dalla rapina degli stipendi delle loro donne. Temo di usare nei loro confronti un punto di vista al limite del razzismo, ma non mi sembra di scorgere significativi segni di cultura etnica da salvaguardare e rispettare.
Vedo dei machi che si godono uno stile di vita preso dal modello dei loro cugini fortunati che se la spassano negli sloom della Florida. Vedo che gli stipendi delle loro sorelle non bastano ad imitare l’aureo modello, visto che qui da noi le Nike appena decenti costano 200 euro. Vedo che il modello degli sloom – prendere dove trovi come puoi quello che vuoi – non è quello che vorrei vedere applicato nella comunità dove vivo. E so benissimo che è indecoroso attribuire quello che vedo a un intero popolo, alla generalità delle persone, ma questo è quello che vedo.
E so anche che le rapine dei giovani ecuadoriani potrebbero estinguersi in una settimana. Se le forze dell’ordine avessero i mezzi e la volontà di farlo. Perché so cosa è successo nel ’92. Allora in un mese una città assai meno bonificata fu ripulita, che a camminare per San Luca non ti sembrava nemmeno vero. Furono i famigerati pattuglioni a fare il lavoro.
No, non è bello vedere la città presidiata, è anche magari irritante e fastidioso. Ma trovo anche fastidioso un coltello alla gola o sapere di un uomo morto di botte per una collanina. E non perché vivo in una città violenta, devastata dai conflitti etnici, gravata di ingiustizie secolari, ma perché ci sono una cinquantina di giovani maschi nati in un paese, quello sì devastato, che vogliono farmi vedere come si fa a pagarsi le Nike. Giovani maschi che è facile identificare nella loro, al momento, disorganizzata crudeltà. Si, sono razzista e fascista e voglio i pattuglioni nei caruggi. E poi tutto il resto, naturalmente. E poi seri servizi di inserimento ed educazione, di sostegno e promozione, naturalmente. Servizi per cui non abbiamo una lira da spendere, naturalmente. Visto che quello che preme è abbassare le tasse e non innalzare la civiltà del Paese.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 5 settembre 2004