Maurizio Maggiani: Viaggio a Cuba il nocciolo della democrazia
Ho rivisto questi giorni sui giornali la fotografia del vecchio testone del "viejo" Fidel. Guarda un po’ chi si rivede, mi sono stupito, e siccome ero nel clima propizio della vacanza, mi sono lascito andare a vagheggiare ricordi. Conosco un pochino Cuba, ci sono stato qualche volta. Prima che a qualche lettore venga voglia di fare lo spiritoso, giuro di esserci andato sempre con la mia ragazza, anche se non sempre la stessa, e di essere tornato a casa assieme a lei. Ci sono stato per lavoro, ci sono stato per curiosità, ci sono stato per affetto verso gli amici che ci ho lasciato. Ho conosciuto gente abbastanza diversa per idee, età e ruoli.
Ho viaggiato abbastanza l’isola per poter dire di sapere qualcosa di Cuba, non tutto ma abbastanza. Ho anche stretto a mano al Comandante in Jefe in fila assieme a un bel po’ di scrittori ed editori europei di diversissima opinione politica ma tutti piuttosto – come dire? – compresi della straordinaria evenienza.
In quella occasione l’unica persona che mi è sembrata prendere alla leggera Fidel è stata sua moglie, che, alla fine del lungo discorso del marito, ha commentato così: mio marito o dorme o parla. Confidava questo a una giovane e incantata editrice spagnola. In quell’occasione e in altre che mi sono capitate di ascoltarlo, temo che Castro non mi abbia insegnato niente che già non sapessi e avessi giudicato, Cuba invece mi ha insegnato qualcosa. Diverse cose, direi, ma soprattutto a riflettere sulla democrazia.
Cuba è governata da una dittatura, Castro è un dittatore. A Cuba non si tengono elezioni libere, né ufficialmente è consentita la circolazione di libere idee. Dico ufficialmente perché ogni famiglia cubana ormai ha la sua parabolica e vede e sente quello che vuole, basta che non lo sbandieri davanti agli spioni. Che comunque la parabolica ce l’hanno anche loro. Sta di fatto che chi ha opinioni divergenti o mette in discussione la rivoluzione e il suo Jefe non ha alcuna possibilità di organizzare e diffondere il suo pensiero e se insiste va a finire nei campi di lavoro. Non è una dittatura tetra – sarebbe impossibile per i cubani sopportare non dico 50 anni, ma anche uno solo di tetraggine – non è la Liberia, non è l’Iraq, non il Cile di Pinochet o la Corea, ma è una dittatura. Punto e basta, perché, come la vedo io, qualunque forma di dittatura, blanda o dura che sia, è detestabile e intollerabile. Avrei avuto dunque ben poco da riflettere se non fosse che la prima volta che sono andato a Cuba ci sono arrivato dopo una sosta di sette giorni a Caracas, Venezuela. Il Venezuela è una democrazia parlamentare e uno dei paesi più ricchi dell’America, o il più ricco, a seconda delle quotazioni del petrolio. Sapete cosa ricordo con più vivezza di quella mia settimana? Il fatto che ho subito imparato a non finire mai la mia pietanza al ristorante. C’era sempre una fila di bambini davanti al mio e agli altri tavoli, che aspettava il momento giusto per finire il lavoro. Fare scarpetta con un po’ di pane e così fare anche loro qualcosa che assomigli a un pasto.
Non sono mai andato nelle favelas che coprono le colline della capitale solo perché nessun tassista mi ci ha mai voluto portare, ma mi è bastato leggere qualcosa nella libera stampa del paese per avere un’idea di come viveva la maggioranza del paese. Cuba è una dittatura, come dicevo, ed è un paese molto povero. A onor del vero non è povero per via della dittatura, ma perché lo è sempre stato. Un paese che produce da quattro secoli monocultura di zucchero e tabacco, due dei prodotti meno appetibili al mondo. Quando sono arrivato, nel ’91, era nel suo periodo di maggiore miseria, con i russi che avevano appena tagliato la corda sospendendo tutte le forniture, dal latte all’insulina, dal petrolio alle lampadine. Naturalmente quello che ricordo con più vivezza del mio primo viaggio è di non aver incontrato nessun bambino che mendicasse il cibo. Chiedevano quello che non avevano, gomma da masticare magari, ma non il pane per la scarpetta con i miei avanzi. E poi mi ha colpito Miguel, un giovane scrittore che chiama Fidel "viejo loco" ma che sapeva che a Miami non avrebbe potuto comprare a suo figlio sordo assoluto l’orecchio bionico che il sistema del vecchio pazzo gli ha fornito gratis. E soffriva come un cane per questo, per una contraddizione che non trovava via d’uscita.
Posso vendere la libertà di pensiero in cambio del pane o di un orecchio bionico, o un sistema sanitario efficiente, o l’alfabetizzazione di massa? No, no e poi no. Ma non ho fame; se avessi fame, se mio figlio avesse bisogno per vivere decentemente di un costoso apparecchio, la venderei. Chiunque lo farebbe, tutti lo fanno. È quando non hai più fame, quando hai speranze per tuo figlio, che cominci a occuparti della tua e della sua anima. Cosa se ne fanno i venezuelani del loro diritto di voto, se comunque votino continueranno a morire di colera nelle favelas e mandare i loro figli a fare scarpetta nei piatti dei ricchi? A meno che non votino per un tale che assomiglia molto a dittatore Fidel, ma che per prima cosa ha dato loro da mangiare e un po’ d’orgoglio per mandare i loro figli a scuola.
Democrazia non è né diritto di voto né libertà di dire quello che ti pare: queste due robe da sole sono una presa in giro. Democrazia è dignità per tutti i corpi e tutte le anime. È pane e conoscenza, salute e libertà. Allora questo mi ha insegnato Cuba: che la democrazia non esiste quasi in nessuno dei molti paesi democratici del mondo, che ciò che ancora sostiene l’ingiusta dittatura di Castro sono le ingiuste democrazie che la circondano. Che la democrazia, vera, è una conquista a venire, una battaglia ancora da fare. Quasi ovunque, tranne forse in qualche paradiso nordico. Anche a casa mia.
“Tratto da “Il Secolo XIX”, 3 agosto 2003″