Maurizio Maggiani: Vi racconto la mia Genova
Il mondo di Tristram Shandy era molto meno complicato, forse, di questo nostro, convulso e deragliato ma a tratti ancora inspiegabilmente bello e decente, a saperlo attraversare con il giusto passo. Sicuramente Maurizio Maggiani, con le sue scarpe da ginnastica gialle, occhialini e macchina fotografica, non assomiglia molto a Laurence Sterne, l’ecclesiastico irlandese che dal 1762 viaggiò in Francia e Italia. Ma il suo non fu il classico Grand Tour dei gentiluomini britannici. Anche lui, come Maggiani lasciò la sua casa e sbarcò in continente in cerca di cure adatte ai suoi problemi di salute,un innesco formidabile per il suo spirito di viaggiatore, intrappolato dagli incontri, dai sentimenti, ammaliato dalle deviazioni, dalle soste, dai placidi ritorni sui suoi passi. Quello che i due romanzieri hanno in comune è proprio l’amore per i luoghi come spazi disegnati e riempiti da una fitta, affettuosa geografia umana. Entrambi parlano di sé come di “camminatori” impegnati in un viaggio fatto attraverso la gente.
E allora prendiamo Mi sono perso a Genova. Una guida, questo nuovo libro di Maggiani. Nella guida Genova arriva da lontano, una tappa dopo l’altra, un percorso di avvicinamento tortuoso e quasi mitico che prende le mosse da un difetto di vista. L’autore del Coraggio del pettirosso e della Regina disadorna da bambino non riusciva a vedere le cose molto piccole e veloci, anche se sapeva contare tutte le stelle di un cielo di notte. Da Castelnuovo Magra, al di là del “muro di confine” invisibile che separa le province di Spezia e Genova, con una traversata quasi epica del Bracco in Topolino, arriva con i genitori al Gaslini, l’ospedale dei bambini, un paradiso terrestre di alberi e angeli dorati.
La prima cosa che lo colpisce è la dimensione onirica della grande città, una specie di Mongo dove Flash Gordon potrebbe sfrecciare da un momento all’altro. Tutto è meraviglioso, il mare più blu, le navi più grandi. Stabilito il passo giusto con cui partire alla scoperta della città Maggiani non si ferma più. Della bellezza si ha bisogno più che del pane,dice. E a Genova la bellezza è padrona.
“Intendiamoci, non tanto la bellezza estetica quanto quella etica. Della decenza, del lavoro ben fatto, come quello dei contadini in campagna, una buona aratura,una potatura a regola d’arte. La bellezza del fare che sta nel gesto”.
E Genova questa bellezza “disadorna” la sa creare. Perché Genova è una città complicata, ma bellissima come quei miracoli di orologeria dal meccanismo complicato, stupendi, con le fasi lunari, il calendario, il cronografo. E la si ama proprio perché complicata. “C’è una ragazza o un ragazzo semplice che oggi si riesca più ad amare? Fosse vero sospira rassegnato Che cos’è una città se non un insieme di relazioni affettive, d’affari, geografiche, culturali? Non sono un gran pensatore,ma sento che io riesco a stabilire solo relazioni affettive, sentimentali con le cose, non solo con le persone”.
Ma qui sorgo noi problemi e per questo, ammette Maggiani, si deve curare. Se devo comprare il pane posso farlo solo dal fornaio che amo, non altri, se questo si allarga a quell’insieme infinito di intrecci che stabilisce una città, la vita diventa molto impegnativa ma anche estremamente gratificante, perché io vivo 24 ore su 24 un intreccio di affettività, di sentimentalità. Non potrei vivere altrove”. Infatti Maggiani ha scelto da molti anni di vivere a Genova, nella crosa Bachernia che sprofonda l’occhio dentro il mare, in un’oasi di pietra e verde che si raccoglie come una goccia a Sant’Anna, uno sghembo e inclinato pezzo di città silenzio sa appoggiato ai muri della farmacia dei frati e dove muratori e impiegati si ritagliano il lusso di un improvvisato déjeuner sur l’herbe.
È tutta così la Genova di Maggiani, rubata alla folla e riconquistata negli interstizi, sotto il vertiginoso viadotto del Polcevera, nel cielo che scorre rapido sulle vetrate di Corte Lambruschini, negli orti dei ferrovieri oltre il binario 15 di Brignole. E’ la Genova raccontata dalle persone, il fotografo “Titti” Bergami, ordinatore del caos, l’architetto Ariosto. Ma anche persone incontrate anche una sola volta, o mai, ma che sono il segno distintivo della città. Come il pittore pazzo per amore “che gracchia come se avesse un megafono con le pile scariche nella carotide”che tutti incontriamo in Galleria Mazzini. I monumenti, le piazze, gli edifici, i graffiti sui muri, la firma morbida e nera di “M”, Mafalda o Merina, la città della modernità che resiste cocciutamente alla contemporaneità, questo sud del nord, il deserto di bulloni e lamiere che fu l’area di Campi dove regnò l’aristocrazia operaia, tutto è raccolto e dis-ordinato anarchicamente,perché “Genova non si può contenere in uno sguardo”.
E a un ragazzo, un giovane che ci mette piede per la prima volta che cosa consiglia la “guida inaffidabile” Maggiani? “Di provare a perdersi, di ficcarsi negli intestini, altrimenti non riuscirà mai ad entrare in questa città. Se l’affronta con prudenza non funziona, Genova è già troppo prudente di suo”.
di Giuliana Manganelli, tratto da Il Secolo XIX, 20 novembre 2007