Maurizio Maggiani: Umiliati sul treno del mare
Ho letto l’altro giorno che il nostro ex primo ministro sta vivendo nella frustrante condizione di non avere dove farsi un paio di settimane di vacanza al mare poiché i cinque siti di sua proprietà adatti allo scopo sono già occupati da altri membri della famiglia, allargata, o impegnati in lavori di ristrutturazione e ampliamento. Ho trovato gratificante la conferma che non il potere,moltissimo, e nemmeno il denaro, tantissimo, bastano a garantirgli la corroborante nuotata che mi sto quotidianamente godendo in località Monterosso, comprensorio delle Cinque Terre, patrimonio dell’Umanità, avendo pochissimo denaro e niente potere. C’è giustizia al mondo, e qualche volta non è necessario aspettare di ascendere all’altro perché gli ultimi possano diventare i primi. Mi piace nuotare, mi piace farlo la mattina presto, con l’acqua ancora frizzante della brezza notturna che l’ha resa limpida e pura. Mi piace immolarmi all’ombra dello scoglio dell’ “U ma passu”, dare qualche bracciata, aprirmi a morto e godermi il primo sole sul pelo dell’acqua. Mi piace quell’ora sospesa, quando la spiaggia, deserta, è ancora tutta pettinata e lisciata, gli ombrelloni chiusi, le sdraio in ordine militare, e i bagnini si godono un panino e una sigaretta stesi all’ombra delle cabine. Poi, già per le dieci, tutto si deteriora un po’. I turisti si sono vegliati, si sono lavati, hanno fatto i loro bisogni, hanno tirato diecimila sciacquoni e il mare patrimonio dell’Umanità finisce di essere limpido e puro. La spiaggia si affolla, il sole picchia forte, cento cellulari cinguettano, berciano, ululano. Ma io posso andarmene contento; ho appena goduto di un paio d’ore di meraviglia assoluta. E tutto questo non perché ho una villa in riva mare, una spiaggia privata, un’isola di proprietà, ma solo una casa sopra la stazione di Spezia e i bagni Cigolini che sono sotto quella di Monterosso. Mezz’ora di treno basta per tutto quello che posso volere da una vacanza al mare. Il mio treno è quello dei lavoratori stagionali, i ragazzi e le ragazze che vanno a rifare i letti, preparano le colazioni, lavano la biancheria, servono ai bar. Dormono di solito all’andata o se ne stanno silenziosi a contemplare i loro cellulari con l’ultimo messaggio della notte ancora da decifrare, o da imparare a memoria. Ma qualche volta, al mare con me, viene Richi, il mio nipotino, e non posso chiedere a un bambino che, si sa, cresce soprattutto nel sonno, di svegliarsi alle sei. Andiamo al mare con il regionale delle dieci. È un treno importante. Scende da Parma e porta a fare le ferie al mare tutta la gente dalla Cisa in giù; Pontremoli, Aulla, Santo Stefano, Sarzana, Vezzano, La Spezia. La gente che si farà il suo agosto marino, ciò che all’ex primo ministro è precluso. Conosco quella gente e loro conoscono me. Siamo le stesse facce da almeno cinquant’anni, da quando mi ricordo io. Il popolo, direi. La nostra gente, come amano dire i politici che quel treno non l’hanno preso e non lo prenderanno mai. Madri con i loro figlioletti cariche di salvagente e passeggini, ragazzi di periferia, famiglie con la borsa frigo e l’ombrellone stretto con la cordella, coppie di anziani con il seggiolino pieghevole e il giornale delle parole crociate. Sì, il popolo che va la mare. Ci infiliamo su quel treno concepito per il trasporto animali spintonando, ansimando, morendo di caldo e smaniando di claustrofobia. Perché nessuno si cura di riparare l’aria condizionata, di aggiungere un vagone, di pulire quelli che ci sono. Ma noi sopportiamo, vogliamo solo andare al mare. Sopportiamo come nel 1958. Ma allora viaggiavano i treni di un Paese in ricostruzione, oggi quelli di un Paese che ha avuto il tempo di ricostruirsi e poi di disfarsi. Allora era sopportazione e basta, oggi è anche umiliazione. E su quel treno mi viene da pensare che non ho più animo di chiedere al mio governo cose eccelse tipo l’equità fiscale, la salvaguardia della democrazia, la pace con il mondo, la riforma elettorale; quelle cose meravigliose e lontane. Ma solo di umiliarci un po’ di meno. Di mettersi lì sulla banchina a vederci prendere il treno delle nostre vacanze a ore e rifletterci su. Perché, pensateci, non è solo che le ferrovie fanno schifo, è qualcosa di più. Il treno delle dieci, e i suoi fratelli che tornano indietro, è solo uno dei tanti luoghi e dei tanti momenti in cui ciò che proviamo è umiliazione.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 5 agosto 2007