Maurizio Maggiani: Sulla sicurezza prendiamo lezione dai danesi
Sul pressante e angosciante tema della sicurezza racconto una piccola storia danese. Mi hanno raccontato i miei amici di Copenaghen che qualche anno fa, all’improvviso, cominciarono a sparire le loro automobili. In Danimarca si era abituati, persino, a lasciare le chiavi sul cruscotto. Di queste sparizioni rimasero sbigottiti finché non realizzarono che gatta ci covava. Si guardarono intorno e notarono che contemporaneamente alle sparizioni di massa fioriva un esteso mercato di auto rubate nelle repubbliche baltiche ex sovietiche, che, liberatesi dal giogo di ferro del comunismo si erano spavaldamente lanciate nel libero mercato delinquenziale.
I danesi sono vikinghi e il popolo vikingo non è di temperamento avventato, ma meditativo. E, alla conclusione delle sue meditazioni, fermo nell’agire, di petrosa fermezza. Così, mi raccontano gli amici, come era improvvisamente iniziata, la moria di vetture cessò da un giorno all’altro. Ero curioso di conoscere il metodo danese, ma gli amici non seppero soddisfarmi: se ne è occupata la polizia e il governo.
La Danimarca è un Paese molto ospitale, accoglie una percentuale di immigrati assai notevole rispetto al nostro Paese. Quando un immigrato clandestino, braccato dalla polizia nell’aeroporto di Copenaghen, morì di infarto per lo stress, l’opinione pubblica chiese e ottenne la testa del ministro dell’Interno. Ma i vikinghi hanno un’idea ferma, petrosa, della legalità e del suo rispetto, che, intendendo applicarla innanzitutto a se stessi, pretendono sia applicata da chiunque entri in contatto con loro.
I miei amici sostengono di non sapere che cosa sia successo alle bande di ladri di auto, quale mezzo di persuasione così efficace sia stato impiegato. Sono convinto che fosse assieme assai petroso e molto rispettoso; sia nei confronti dei ladri, sia nei confronti delle autorità dei loro Paesi, che se sono di così blanda fermezza da trovare accettabile colludere con la criminalità, non possono permettersi il lusso di irritare la sensibilità di un Paese che può dare ai loro Paesi molto, e la cui irritazione basta ad abbassare di un paio di punti il loro indice pil.
Non so se il metodo vikingo sia esportabile, e se lo sia in questo Paese. Abbiamo il grave handicap che la nostra idea di legalità è troppo vaga e confusa e lo è da troppo tempo per essere imposta a chichessia con l’efficacia e la persuasività che proviene dall’autorevolezza. Ma credo anche che si possano apprendere in un tempo ragionevole i grandi vantaggi del ragionamento e della fermezza; in fin dei conti non siamo degli animali.
Credo che alle autorità italiane, qualora si presentassero in stile vikingo, basterebbe un viaggio di mezza giornata a Tirana e poche frasi ben calibrate per ottenere notevoli risultati nella lotta alla clandestinità criminale. Così come una campagna condotta dalle nostre forze di polizia sul territorio nazionale nello stesso stile, porterebbe a risultati miracolosi. Ma, per quanto mi sforzi, non riesco a immaginare una revisione così radicale dell’Italian style.
Tanto per dire, non riesco ancora a spiegarmi, se non per misteriose implicazioni del nostro particolare stile, come mai un anno fa, a seguito di un grave episodio di violenza connessa alla droga nel centro storico di Genova, furono velocissimamente espulsi una ventina di clandestini e rimase ben visibile sulla “piazza” proprio il tizio che era universalmente noto come il capobanda degli spacciatori. Quello di cui i miei amici danesi non avrebbero più sentito parlare un secondo dopo aver deciso che era bene provvedere. Non sono sicuro affatto che si tratti di legislazioni diverse, ma di diverse regole e diversi modi di vivere nel loro rispetto e nella loro salvaguardia.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 20 maggio 2007