Maurizio Maggiani: Quegli E.T. tra la folla
No, non sono andato a Roma, sono venuto a Brescia. A Brescia direttamente da Madrid. A Madrid ero andato a trovare i miei amici, a vedere con i miei occhi come stanno, qui sono venuto per parlare della memoria agli studenti. Come a Madrid, anche a Brescia c’è stata una strage, ma a Brescia è accaduto trent’anni fa e naturalmente nessuno dei ragazzi a cui ho parlato era ancora nato. In verità il mio viaggio dalla Spagna alla Lombardia non è un viaggio nello spazio, in effetti è come se fossi rimasto immobile, ma nel tempo. Alcuni dei miei amici madrileni hanno figli dell’età dei ragazzi di Brescia. Quei ragazzi hanno vissuto dentro la strage, la ricorderanno in eterno. Ricorderanno la strage, ricorderanno di aver cambiato la storia del loro Paese. I giornali spagnoli e i loro genitori concordano sul fatto che sono stati loro, due milioni di ragazzi, ad aver mandato a casa il Partito popolare. Genitori, istituti di sondaggio e partiti erano sicuri che non sarebbero andati a votare. Invece l’hanno fatto non perché si fossero improvvisamente innamorati di Zapatero, ma perché hanno trovato intollerabile il comportamento del loro governo: hanno avuto più paura delle bugie di Aznar che del terrorismo mondiale. Nel nodo di una grande tragedia non sono andati a nascondersi, sono andati a votare. Vamos, c’era scritto nei loro Sms. Ne ho ricevuto uno anch’io. Vamos, e sono andato a Brescia a raccontare a questi ragazzi di qui dei ragazzi di là, e di me ragazzo cresciuto una strage via l’altra. Piazza Fontana, Italicus, Peteano, Brescia, Bologna, Ustica. A raccontare di come sono cresciuto nella paura e nell’orrore e di come mi sono impedito di nascondermi. Di come nascondersi non serva a nessuno. Ho pensato che fosse più utile questo anche se sarei andato volentieri a Roma. Molto volentieri. Perché ancora oggi non intendo vivere acquattandomi in qualche angolo ben riparato, ma vivere, votare, marciare e ogni altra cosa che mi sia data di fare per vivere con dignità ciò che sono e ciò che penso. Ma, ecco, in questo momento la radio sta dicendo: disordini alla manifestazione di Roma, Fassino contestato, i disobbedienti, Casarini. Sapevo che sarebbe successo. Casarini e i suoi prodi disobbedienti esistono solo perché questo accada. Anzi, esistono solo perché i media possano riferire delle loro azioni. Il giorno che non dovesse esserci più un giornalista che ha voglia di intervistarlo, Casarini sparirebbe dal mondo, inghiottito dalla sua nullità. Ma nonostante sia certo che, appunto, nei prossimi sette giorni non si parlerà che di questo, sono anche certo che il problema, quello vero, non sia né lui né i suoi teppisti. Il problema è che per la stragrande maggioranza di quelli che stanno marciando ora, che hanno sfilato e ancora sfileranno, per un’intera generazione di giovani l’onorevole Fassino non esiste. Fosse alto anche dieci metri sarebbe stato invisibile in testa, in mezzo o in fondo al corteo. Gli unici a vederlo sono le telecamere e Casarini. Tra movimenti per la pace, tra chi vive la propria storia e la storia del mondo sulla forza della condivisione delle proprie opzioni etiche e morali e l’onorevole Fassino c’è oggi una distanza incolmabile, una estraneità totale. E dico Fassino perché, poveraccio, oggi c’era lui, ma intendo il gruppo che decide e dirige la politica della sinistra. Questa gente gode oggi di attendibilità zero. Anche dicesse cose giuste non è più in grado di essere ascoltata se non da se stessa. Il fallimento della manifestazione contro il terrorismo dovrebbe dire qualcosa in proposito: le cose giuste le sa fare solo nel modo sbagliato. La loro autoreferenzialità è tragica perché saranno loro che vorranno essere eletti in nome del cambiamento. Perché saranno loro che per essere eletti parleranno di pace e di guerra, di terrorismo e di giustizia tra i popoli, avendo nessuna attendibilità alle orecchie di una moltitudine che in qualunque Paese sarebbe tenuta come la parte migliore di sé. Oggi una parte notevole della Spagna guarda i suoi ragazzi con sorpresa e rispetto. Mi sa che dovrà chiedere a loro molte cose, ascoltarli attentamente quando risponderanno. E’ a loro che debbono una storia nuova per il loro Paese. Forse succederà anche qui, tra cinquecento anni, magari. Nella speranza che non debba essere una strage orrenda a fare da percussore. Il resto: le bugie, la supponenza, l’informazionepubblica servile. E’ già tutto pronto da un pezzo.
Tratto da: Il Secolo XIX, 21 marzo 2004