Maurizio Maggiani: Parlare in nome di chi?

Devo aver commesso qualche errore. Forse un certo mattino ho dormito un’ora di troppo e ho perso un passaggio decisivo della storia, forse ho firmato qualcosa senza leggere bene tra le mani di un tale che mi ha fermato per la strada in nome di un’antica amicizia che non oso ricordare. In ogni caso qualcosa di sbagliato devo pure aver fatto, perché altrimenti non mi so spiegare come mai in questi ultimi tempi si sono messi tutti a parlare a mio nome. Senza chiedermi il permesso, e con la sicurezza e l’albagia di chi sa di averci la mia delega in tasca. Secondo me non sono il solo a provare questa frustrante sensazione; ragion per cui, se non ci hanno tutti ipnotizzati e fatto firmar carte in stato di incoscienza, sarei addivenuto all’idea che sia in atto una sorprendente e colossale appropriazione indebita delle opinioni e delle idee della gente. Della gente fatta di individui, ciascuno con la sua testa, la sua coscienza, i suoi pensieri.
Non è una novità, l’appropriazione indebita delle coscienze è stato un delitto politico e morale assai diffuso nella storia dell’umanità e del nostro amatissimo Paese; ma il fatto straordinario è che, mentre nei tempi passati erano fior di furfanti ben conosciuti quelli che la praticavano, pare che oggi sia un’onesta e normalissima prassi generale. Cosicché, al cospetto della candida protervia con cui si parla a nostro nome, presto potremmo cominciare a chiederci se non siamo noi scioccamente riottosi a concedere definitivamente le nostre coscienze a chi già le ha in tasca. Io, per me, vorrei fare ancora un po’ di resistenza.
Ma voglio fare un paio di esempi recentissimi. Non riguardano professionisti della protervia, ma persone che diresti dabbene.
Il leader della Margherita, formazione politica di speccchiata fede democratica, ha dichiarato l’altro giorno che “gli italiani non vogliono il ritiro delle truppe in Iraq”. Gli italiani chi? Quale consultazione democraticamente indetta lo rende così sicuro di un’affermazione così importante? Un referendum, un sondaggio, le confessioni di massa degli abitanti del suo quartiere? Forse è vero, forse c’è stata di prima mattina mentre ancora dormivo una consultazione generale e gli italiani si sono espressi. Sarebbe stato chiedere troppo, anche se generosamente democratico, che il signor Rutelli si fosse così espresso: gli italiani, tranne la singolare eccezione di Maurizio Maggiani, che dormiva, non vogliono….. Dopodichè nemmeno ci credo. Dopodichè vorrei fare notare al signor Rutelli che l’unica formazione politica iraquena che non chiede l’urgente ritiro delle truppe straniere, quella del premier Allawi, ha preso nelle elezioni che tutti noi abbiamo così ammirato il 13%. Ragion per cui, risulterebbe che il popolo italiano vuole una cosa che il popolo iraqueno aborrisce. Con quale diritto? Ma il signor Rutelli parla a nome degli italiani così come parla a nome degli iraqueni e parlerebbe volentieri a nome degli angeli del cielo se gli chiedessero qualcosa al riguardo: egli si sente investito di una coscienza e una conoscienza superiori a cui la vile materia della realtà deve assoggettarsi. Sappiamo come sia in buona compagnia.
Ma sono bazzecole se penso alla seguente affermazione: “Tutta una generazione è colpevole e l’unica cosa da fare è l’amnistia”. È apparsa sul “Corriere della Sera” di tre giorni fa. Chi ha fatto una affermazione così drammatica è un mio coetaneo, un uomo di grande sensibilità e arte, uno scrittore molto più bravo di me. La generazione di cui parla è la sua e la mia, e ne parla a proposito degli anni Settanta, gli anni della nostra giovinezza e delle stragi di Stato, della delinquenza politica, del terrorismo eccetera eccetera. Ma come si permette di parlare per conto di una generazione intera? Chi lo autorizza a parlare per me, per Roberto, per Moreno? Forse che una élite di rivoluzionari con tendenze a delinquere in nome del popolo è il popolo? Io non ho mai sparato a nessuno, non ho bastonato nessuno, non ho mai scritto che bisognasse farlo, non ho mai tenuto comizi per istigare altri a farlo. Ho fatto la mia battaglia per una vita decente, ingenuamente convinto che avrei potuta vincerla, ma l’ho combattuta a mani nude e con il poco intelletto che ho a disposizione. L’ho persa e non per questo mi sento sconfitto. Non ho mai pensato che il fine giustificasse la P38 come non penso che un voto giustifichi una guerra.
Ho in odio chi ha pensato di poter fare giustizia a nome mio con i sistemi suoi perché non ho dubbi che il terrorismo politico di sinistra abbia avuto lo stesso effetto sulla mia vita di quello di destra: me l’ha rovinata sul più bello. Perché ha generato un’epoca priva di speranzosità e ha consentito l’instaurazione di un ordine politico di cui oggi mi godo lo schifo. C’è un drappello di uomini e donne che si aggira per l’Europa colmi di sensi di colpa e scarsissima propensione ad espiarla. Se la vedano con la loro coscienza e i loro avvocati, ma non si azzardino a venire a cercarmi; non mi chiedano di associarmi alle loro ansie e di favorire la loro fuga dalla storia che hanno contribuito a corrompere. Men che meno mi chiedano di sottoscrivere il vecchio trucco del tutti colpevoli, tutti fuori. Del resto hanno già abbastanza amici e comprensione senza cercare me, Roberto, Moreno e qualche altro milione di cinquantenni che stanno cercando di cavarsela in questi tempi bui senza il conforto dei privilegi e senza l’ombra delle colpe.

Tratto da “Il Secolo XIX” 20 febbraio 2005