Maurizio Maggiani: Non mi piace l’Italia fondata sul condono

Possiedo un’azienda. La mia azienda si chiama Maurizio Maggiani e ha un solo dipendente, così come ha un solo padrone, indegnamente rappresentati ambedue nel sottoscritto. Quando vado al mare io l’azienda è in ferie, quando mi prendo l’influenza chiude; posso assumermi quando voglio e posso licenziarmi appena mi girano un po’. Posso addirittura molestarmi sessualmente, respingere le molestie, licenziarmi senza alcuna giusta causa e riassumermi immediatamente dopo aver fatto un serale esame di coscienza. La mia è un’azienda agile, moderna, profittevole. Come tutte le aziende ha un commercialista. Il commercialista ha il compito di fare per bene i suoi conti e ogni tanto telefonarmi per chiedermi dei soldi. Con quei soldi ci paghiamo le tasse. Il mio commercialista è serio, la mia azienda molto snob: paghiamo le tasse, tutte quante, sempre. Noblesse oblige.
Ieri l’altro il commercialista mi ha telefonato per chiedermi una cosa molto più strana del solito assegno. Mi ha domandato: cosa dici, condoniamo? Condoniamo che? Le tasse, no? Ma non le abbiamo pagate tutte regolarmente? Sì che abbiamo fatto tutto in regola. E allora? Allora, sai, visto che c’è la proroga, potremmo condonare. Noi siamo in perfetta regola, ma se condoniamo ci compriamo, diciamo così, la pace eterna, la certezza che nessuno ti viene a rompere. Ma io sono a posto! Sì, ma chi ti può dare la certezza matematica che non ti trovino qualche pelo da qualche parte?
Sai com’è; invece se paghiamo una scemata dormiamo tra due guanciali. Ci penserò. Ci ho pensato. Sì, lo so com’è, ma farò l’eroe: non pagherò per un reato che non ho commesso. Non voglio adeguarmi, non voglio accondiscendere, non voglio farmene una ragione. Anche se ora ho la definitiva certezza di vivere in un paese al culmine del suo carnevale, non voglio salire sul carro di Tespi, dove gli asini fanno i dottori, i buffoni i re, i ladri i moralisti. Dove tutto può succedere come in una vecchia gag del varietà, e così chi paga le tasse è in pericolo di ritorsioni, chi le evade è blandito, compreso, adulato. E tutto il resto. C’è chi dice che viviamo in un regime; non è vero: un regime che meriti questo nome ha degli ideali robusti, alti, risolutori. Quegli ideali Mussolini, Stalin e compagnia li hanno pervertiti, ma ce li avevano, e con quelli hanno fondato uno Stato retto per un tempo cospicuo dal consenso di un popolo chiamato a grandi traguardi di giustizia e riscatto. Al tempo delle inique sanzioni il cavalier Benito Mussolini ordinò ai capitalisti del Paese, che pure molto avevano fatto per il suo regime, il rientro dei loro capitali dall’estero per sorreggere l’economia in grave crisi. Scaduto il termine, fatte le debite indagini, ha convocato i riottosi nel suo studio, gli ha sbattuto davanti il foglio con le cifre e ha ordinato: a casa, tutto. C’è chi, tra il fiore dell’imprenditoria, si è ucciso dalla vergogna per essere stato sorpreso con 5 milioni a Zurigo.
Erano i tempi che un commerciante con la bilancia truccata o la farina non proprio bianca finiva in galera per direttissima. Benito Mussolini, noblesse oblige! Ritratto per la memoria dei posteri nel suo momento di massimo prestigio internazionale – la firma del trattato di Monaco – tutto serio e impettito, e con le mani ben ferme al loro posto, non svolazzanti sopra le teste dei suoi colleghi. Un regime è una cosa seria, parola di libertario. I conoscitori del pensiero di Carlo Azeglio Ciampi ci dicono che è supremo desiderio del Presidente preservare il prestigio dell’Italia per il semestre appena iniziato di presidenza europea. Preservarlo, dice, a qualunque costo. Vorrei tanto sapere di quale prestigio è venuto a conoscenza il nostro Presidente. A meno che non si tratti del prestigio degli italiani, di chi tra loro pensa, lavora, crea. Ma il Presidente si riferisce al prestigio dello Stato e del suo governo. Giro il mondo, ho questo privilegio, e non trovo tracce di quel prestigio. Non nell’opinione della gente, non in quella dei giornali, non nei politici, se non di quelli in odio presso i loro stessi cittadini, non negli intellettuali.
Parlando con un businessman statunitense, repubblicano, imponente di corpo e portafoglio, ho scoperto che non piacciamo neppure ai repubblicani d’America: con il loro mito dell’uomo tutto d’un pezzo, duro e puro, ci chiamano i bobies – cagnolini – di George "Dabliu" Bush. Fossimo un regime, saremmo considerati con maggiore attenzione e cura, se non altro per la paura che potremmo incutere; saremmo dei lupi o dei dobermann. Noi sappiamo solo spaventare chi paga le tasse e quei disgraziati che annegano al largo di Lampedusa. Noblesse oblige.

“Tratto da “Il Secolo XIX”, 22 giugno 2003″