Maurizio Maggiani: Mio nonno si chiamava Garibaldi
Quando torno al paese dove sono nato c’è sempre qualcuno dei vecchi che mi riconosce per avermi visto in qualche televisione o su qualche fotografia di giornale; così si fermano e mi salutano: come te stè Garibà? Perché al mio paese io sono ancora e sempre sarò er neodo de Garibà, il nipote di Garibaldi, ed è mio destino e privilegio portare il suo nome. Così come le femmine nella mia famiglia sono tutte Verò, progenie della matriarca, io sono il maschio dei Garibà, discendente del patriarca. Che era mio nonno, all’anagrafe Armando, ma agli occhi di tutta la famiglia e del paese, Garibaldi, così che ho conosciuto il suo nome non vero ma ufficiale solo quando ho visto la sua tomba. Naturalmente mia nonna, la sua sposa, nata Genoveffa, l’ho conosciuta ed è stata universalmente riconosciuta come Anita.
Come avrebbe mai potuto altrimenti chiamarsi? La leggenda narra che il nome di Garibaldi sia venuto a mio nonno in tenerissima età. Aveva più o meno tre anni quando fu portato con tutta la famiglia a ricevere alla stazione di Sarzana uno zio che tornava da una delle campagne garibaldine combattuta gloriosamente in non si sa quale angolo del mondo. Lo zio fu molto contento nel constatare che la famiglia si era in sua assenza arricchita di un nuovo maschio, prese in braccio il nipotino e gli calò sulla testa il suo berretto garibaldino. La famiglia, in visibilio, acclamò il bambinello come “Garibaldi”. I para proprio Garibà, sembra proprio Garibaldi, proclamò lo zio, e da quel giorno cosìè stato. Ma lo è stato davvero. Mio nonno si è sentito in dovere di crescere onorando il suo augusto e glorioso nome, e quando l’ho conosciuto era un uomo alto, imponente, carattere indomito, temperamento rivoltoso. Gran donnaiolo, a sentire i bisbigli delle figlie; puttanero, per usare l’onesto ma volgare lessico dialettale con cui l’austera morale contadina indicava chiunque rivolgesse altrove dal talamo coniugale le sue attenzioni, e conseguentemente classificava nella categoria analoga qualunque donna si prestasse a quelle attenzioni. Un facinoroso repubblicano e anarchico, a frugare negli archivi della polizia fascista. Insomma, tale e quale Garibaldi.
A questo punto della mia vita non posso in coscienza affermare di aver rispettato il mandato familiare. Le mie zie continuano ancora a dirmi: te para tu nono Garibà cagò e sputà. Ma in cuor mio so di non aver conservato che la pallida ombra della genetica garibaldina. Non sono imponente né impenitente, e forse tutto quello che posso vantare dei Garibàè il pessimo carattere che mio nonno condivideva con l’Eroe dei due mondi.
Eppure sono pur sempre un Garibà, e per questa ragione ieri mattina ho compiuto un’effrazione, pur senza scasso, e mi sono insinuato nel mito di Garibaldi sotto la specie della mostra che si sta allestendo a Genova, a Palazzo Ducale, e che la gente per bene potrà vedere solo da sabato prossimo. Sentivo di poter vantare il privilegio di un’anteprima e volevo conferire con i miei avi in tranquilla solitudine. Nelle sale deserte la luce dei fari ancora orientati nel niente illuminava Garibaldi e la sua leggendaria vita sparpagliata qua e là, addossata alle pareti ancora spoglie, mezza scartata e mezza ancora da svolgere. Un eroe nella penombra di una totale solitudine. È risaputo, gli eroi sono sempre soli, soprattutto se compiono l’errore di morire di vecchiaia, ma oggi è veramente più solo che mai, abbandonato come l’avanzo di un trasloco.
So che racconterò di Garibaldi al mio nipotino Richi, e so che lo farò nella segreta ambizione di consegnargli una leggenda familiare e il compito di perpetuarla; gli parlerò del suo bisnonno e dell’Eroe che gli ha dato il nome, delle gesta dell’uno e dell’altro. Cercherò di disegnargli gli antichi Due Mondi dove l’Eroe combatté per pura follia di redenzione universale, e il piccolissimo mondo dove Garibà visse irredento ma indomito. Gli regalerò il fazzoletto rosso che ho ereditato e gli descriverò il berretto che è andato perduto; farò ogni cosa come meglio so fare, ma temo che non vorrà farsi chiamare Garibà, er neodo der neodo de Garibà, il nipote del nipote di Garibaldi. E farà bene così, naturalmente, visto che è assai probabile che incorrerebbe in stupidi sberleffi, essendo i suoi coetanei del tutto ignari di chi fosse stato l’uomo più amato di questo Paese e del perché fosse così tanto amato. Amato nonostante e in virtù delle sue innumerevoli sconfitte, amato per l’assoluta gratuità del suo vivere in balia di se stesso e della storia del mondo, amato per la sua stupida – per dirla con Mazzini e Marx – inestinguibile volontà di cambiare il destino con le proprie mani. Un uomo del tutto inutile, visto con gli occhi di questa contemporaneità. Un uomo che, nonostante le dicerie, non ha fatto l’Italia, ma che ha fatto di moltitudini di servi degli italiani.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 11 novembre 2007