Maurizio Maggiani: Mi faccio una pera (ma greca)
Le scorse settimane ho fatto un bel viaggio in Grecia, preferendo la parte balcanica, vagando per le montagne dell’Epiro e della Macedonia, spiaggiando nella Calcidica, nuotando fin sotto il confine spinato della repubblica monacale del monte Athos. Ho visto un sacco di cose interessanti e ho persino meditato sulla tomba di Filippo II il Macedone, papà di Alessandro Magno, insigne precursore della politica antropofaga. Ho visitato musei e università, ho conversato con insigni intellettuali e amabili pastori di capre, ma se dovessi dire quale è la cosa che più mi ha colpito non avrei dubbi: la frutta. Di fatto, secondo me, tra le meraviglie del suolo ellenico, la più stupefacente è la frutta. Ho mangiato più frutta in quelle tre settimane che negli ultimi dieci anni. Pesche, albicocche, meloni, pere, susine, prugne. Dio mio, era la frutta del Giardino dell’Eden. Credevo che non esistesse più frutta così squisita. Ancora un po’ e avrei cominciato a pensare che non fosse mai esistita; mitologia dell’infanzia, fantasie intorno al mondo agreste perduto. Pesche enormi, gialle come il sole, succose e profumate da stordire il palato. Pere dolci e croccanti, che si sciolgono in bocca come miele, che solo al tatto ti infondono una sensazione di voluttà quasi sensuale. Beh, ci siamo capiti; credo che almeno tra i lettori più anziani ci sia qualcuno che si ricorderà di questi prelibati doni della terra, e i più fortunati ne ricorderanno persino il gusto.
Stupito di questa abbondanza di delizie, mi sono posto una delle mie domande cretine: perché la frutta, tutta la frutta che ho comprato in Grecia è buonissima, e tutta, ma proprio tutta la frutta che compro in Italia è una roba che non sa di niente? Le pesche greche sono vere, indimenticabili pesche e le nostre sono un agglomerato di fibre vegetali aggiunte di additivi e coloranti naturali e artificiali? E chissà mai perché la meravigliosa frutta greca costa un quarto di quell’infamità italiana?
Nella comitiva del mio viaggio era compreso un economista, amante dei ricci e delle cozze mangiati crudi appollaiato sugli scogli, il quale, dandomi giustamente del cretino, mi ha così risposto. L’economia greca è arretrata, quasi arcaica, l’economia italiana si è finalmente modernizzata e razionalizzata anche nei settori più tradizionali. In Grecia la frutta viene fatta maturare nei campi spesso di piccoli proprietari, raccolta giornalmente, caricata sui camion e portata nei mercati. Deve essere venduta subito perché altamente deteriorabile, e dunque costa poco. Tutti spendono poco e tutti guadagnano poco; tipico delle economie antiquate.
In Italia il piccolo agricoltore non esiste più, o comunque non accede ai mercati. Esistono grandi aziende agricole e grandi commercianti grossisti. Gli agricoltori raccolgono la frutta ancora acerba, la vendono ai grossisti che la stoccano in appositi frigoriferi dove viene portata a uno stadio di commestibilità almeno apparente, e portata nei mercati in modo che sia esteticamente gradevole e che possa essere conservata dai dettaglianti alcuni giorni onde massimizzare il guadagno. Il sistema è razionale e funziona bene per tutti, dagli agricoltori ai dettaglianti. Se poi la frutta fa schifo al palato, questo è un particolare secondario: il cliente impiega poco tempo ad abituarcisi. Il suo costo è alto perché le grandi imprese devono realizzare alti guadagni; nessuno ha voglia di mettere su un’azienda per degli spiccioli.
E io, io che devo spendere 4 euro per mettermi in bocca un chilo di quella roba, che ci guadagno? Altra domanda cretina. Niente, ovviamente, risponde l’economista molluscofilo. In un sistema economico moderno e razionale è mio compito trovare la mia ragione di soddisfazione e guadagno altrove, nell’immensa offerta di opportunità che una economia avanzata può offrire. Mica si vive di sole pesche e pere; e se proprio non ne puoi fare a meno, vattene in Grecia a mangiarle: questa è la globalizzazione, amico mio.
maurizio maggiani
Tratto da “Il Secolo XIX”, 22 luglio 2007