Maurizio Maggiani: Meno tasse

Sono stati conquistati grandi regni senza colpo ferire con la storia di far pagare meno tasse e grandi regni sono stati salvati in extremis grazie alla stessa storia. Del resto trovatemi un umano sano di mente che non arda dal desiderio di pagare meno imposte.
Per molti tra noi, pagare un po’ meno tasse compendia l’impegno di tutta una vita. Sono seimila anni che è così, a leggere le antiche fonti. E da altrettanto tempo si scontrano, a occidente e a oriente, al nord e al sud, due contrapposte scuole di pensiero sul punto cardine, sulla questione principe: a chi far pagare meno tasse? Perché l’idea che nessuno le paghi non è utopia, ma puro delirio.
Prima scuola, la più in voga, la più arzilla, la vincente dai tempi di Nabucodonossor fino alla rivoluzione francese, insegna così: paghino meno i ricchi. Più i ricchi sono ricchi, più i poveri troveranno gran quantità di avanzi sotto le loro tavole. Ai poveri le briciole fanno buon pro, e se gli rimane un po’ di appetito, meglio, che così non pensano ad altro che a cercar briciole e non hanno tempo per uggiosi pensieri. Che mi risulti, l’ultimo statista che ha pronunciato davanti a testimoni queste parole precise è stato il grande imperatore abissino Ailé Selassiè.
Di norma, nei tempi moderni, questa teoria viene enunciata con termini meno terra terra, ma la sostanza rimane: se i ricchi spendono tanto c’è bisogno di un mucchio di operai che fabbrichino le cose che loro comprano. L’occupazione aumenta e alla fine tutti vanno a star meglio. Naturalmente a sostenere questa teoria sono i ricchi e gli economisti e i governanti a loro vicini. Il presidente Reagan, il primo ministro Thatcher, sono stati dei grandi profeti di questa idea. La seconda scuola dice così: facciamo pagare il meno possibile i poveracci e il ceto medio. In questo modo decine di milioni di cittadini, e non solo un pugno di privilegiati, potranno soddisfare i loro bisogni. Non potranno mai comperare auto di lusso o yacth, ma una quantità straordinaria di beni e di servizi utili e interessanti.
Saranno milioni di persone più felici e più sane, disposte all’ottimismo e a lavorare meglio e di più. In questo modo anche i ricchi avranno il loro tornaconto. Continueranno a pagare molte tasse ma i loro guadagni saranno maggiori perché le loro aziende produrranno di più e di meglio. Sempre che si tratti di ricchi “produttivi”, perché i ricchi “speculativi” non avranno niente da guadagnarci, anzi. Ma a noi le ricchezze accumulate tramite speculazione non ci garbano affatto, così dicono quelli della seconda scuola. Che, naturalmente, è sostenuta dai poveri e dai loro rappresentanti politici e dagli economisti che li hanno in simpatia. Va detto che questa seconda scuola è assai più giovane della prima e assai meno potente oggi come oggi.
In verità fino a poco più di cento anni or sono, i poveri tendevano a risolvere la questione delle troppe tasse facendo, quando proprio non ce la facevano più, una rivoluzione. Spesso gli andava male, qualche volta invece bene, ma alla fine hanno considerato che mettere su una scuola di pensiero e provare a farla primeggiare era senz’altro più economico e soddisfacente di un putiferio dagli esiti a dir poco nebulosi. Delle due scuole quale è quella che ha ragione? Secondo i ricchi la prima, secondo i poveri la seconda. Io ad esempio, che non sono ricco, credo fermamente nella seconda scuola. Così ho pianto alla morte di Willy Brandt e non a quella di Reagan. I poveracci d’America – anzi, i poveracci di tutto il mondo – hanno ancora vivida memoria di quanto si fossero trovati improvvisamente molto più poveri a decine di milioni ai bei tempi di Reagan, mentre i ricchi sostengono che quella si che era Economia. Perché l’economia, come tutte le cose del mondo, non è una roba astratta, non è un valore universale, ma, semplicemente, un buon modo per capire a chi vanno, e devono andare, in tasca i soldi. I quali soldi, come tutto ciò che appartiene alla materia dell’universo, non si creano né si distruggono, ma si costruiscono, trasformando il lavoro e l’ingegno in beni ed servizi da vendere e comprare. Qualunque sia la teoria applicata, un’economia è forte per chi ha il portafoglio pieno per quello che ha venduto e debole per chi ce l’ha vuoto e non può comprare.
Dopodiché urgerebbe una domanda: se un impiegato sborsa all’erario, utopisticamente parlando, 250 euro di meno all’anno, quanto dovrà pagare di più per la scuola di suo figlio e per la cura di suo suocero? Solo per parlare di due delle molte cose che lo stato deve, o dovrebbe, fornire ai suoi cittadini in cambio delle tasse che gli versano.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 11 luglio 2004