Maurizio Maggiani: Marketing docet. E anche la chiesa dice così sia

Giusto tra una settimana si svolgerà a Roma una manifestazione molto discussa e molto attesa. È stata molto voluta e molto organizzata dalla Chiesa cattolica attraverso le sue parrocchie, le sue associazioni di base, i suoi rappresentanti nelle istituzioni e nelle istanze politiche. Ragione e tema della manifestazione è la difesa della famiglia, così come la morale e la dottrina cattolica la intendono. La manifestazione ha un nome: Family day.
Non ho nulla da dire o ridire sulla manifestazione, ma sul suo nome sì. Perchéè stato necessario usare la lingua inglese – mi correggo, la variante americana della lingua anglosassone – per convocare una manifestazione voluta per promuovere valori spirituali, dottrinari, etici, che appartengono per intero, e in parte esclusivamente, alla cultura religiosa cattolica italiana, e alla sua lingua parlata e scritta?
La Chiesa cattolica ha la sua “Giornata delle Missioni” perché pensa di non poter indire la “Giornata della famiglia”? Nel calendario cattolico c’è il “Corpus Domini”, e spero che tutti i cattolici sappiano il suo significato, perché non ha fiducia in un “Dies familiae”? Tra l’altro il latino è tuttora la lingua della comunicazione universale della Chiesa cattolica Romana, e per inciso “Dies familiae” ha un suono molto bello e persino accattivante all’orecchio di un “romanzo” italofono.
L’uso delle lessicalità sintetiche americanofone è stato introdotto nella comunicazione per la mobilitazione sociale e politica di massa da Forza Italia con il Tax day, la manifestazione contro le imposizioni fiscali di qualche anno fa. La scelta di questa forma comunicativa proviene dalla grande esperienza nel settore della comunicazione commerciale, nel marketing, del suo fondatore e presidente, e dalla prestigiosa task force – termine assai più persuasivo e affascinatore di “gruppo di lavoro”- di esperti della comunicazione e delle vendite alle sue dipendenze. Tax day è assai più gradevole, positivo, eccitante e coinvolgente di “Giornata di mobilitazione contro le tasse”; crea intorno all’evento un’atmosfera di internazionalità e lo colloca nell’alveo protettivo e altamente persuasivo della cultura americana, così come la percepiamo e la apprezziamo attraverso le sue ritualità civili e i film di grande successo che ce le raccontano.
L’idea degli esperti di marketing (di promozione e vendita) è che un’idea o un’azione politica debba essere presentata e venduta al pubblico come qualsiasi altra merce e prodotto. Sembra che la cosa funzioni a meraviglia. E questa filosofia di vendita del “prodotto” politico e sociale non è esclusiva del “partito azienda”. Da tutt’altra parte e intenzione arriva il Gay pride, che sostituisce la “Giornata dell’orgoglio omosessuale”. Un problema di comunicazione, quello della condizione omosessuale, assai più delicato di quello delle tasse. Gay pride dice e non dice, è ben compreso da chi partecipa del problema, ma sottace molto della sua potenziale carica eversiva agli orecchi ostili. La traduzione onesta, se non letterale, di Gay pride sarebbe “Orgoglio checca”, assai peggio di “Orgoglio omosessuale”, ma abbiamo metabolizzato il termine anglosassone come una sigla, una locuzione neutra universalmente riconosciuta e accettata, privata di valore dispregiativo, compresa nel dizionario universale dei media. Per questo la usiamo senza la necessità di tradurla né di conoscerne le origini.
In qualche modo anche le giuste istanze degli omosessuali devono essere vendute all’opinione pubblica, in una realtà di mercato, diciamo così, per niente favorevole, e il metodo di marketing rimane lo stesso, l’unico che appare vincente.
È interessante notare come ciò che non serve vendere può ancora essere espresso in lingua italiana ed efficacemente comunicato. Tutti sanno cos’è il Primo Maggio, che funziona benissimo senza bisogno di diventare Labour day. Altrettanto vale per la Liberazione, che non serve che si trasmuti in Liberation day. E così per l’Ascensione o il Corpus Domini o il Lunedì dell’Angelo, “prodotti” affermati da secoli.
Ciò che mi turba, dunque, è la constatazione che gli organizzatori del Family day abbiano operato nella convinzione che anche i principi morali e dottrinali altro non siano che prodotti da presentare e vendere. Che la difesa e la promozione della famiglia debbano essere oggetto di studio degli esperti di marketing. Naturalmente questo contraddice la coraggiosa predicazione contro la secolarizzazione della società, preoccupazione costante e prioritaria degli ultimi pontefici compreso il presente. Lavoriamo alacremente per vendere il “prodotto” famiglia, avvalendoci delle sofisticate analisi merceologiche e poi possiamo forse lamentarci della mercificazione dei valori? Naturalmente no.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 6 maggio 2007