Maurizio Maggiani: L’incivile Italia delle auto
Da un paio di mesi nella mia strada c’è parcheggiato un nuovo Suv. È veramente magnifico, un Mitsubishi last generation, full engine terminator; quanto costa posso solo immaginarlo. Il proprietario che conosco di vista è un padre di famiglia, un tipo a posto, è un immigrato che lavora come manovale nell’edilizia dodici ore al giorno festivi compresi. Quel Suv deve essere il sogno della sua vita, e per acquistarlo deve essersi indebitato per tutta la vita che gli rimane; ci sono finanziarie che te lo danno per comode rate in 40 anni o giù di lì. In tutto questo tempo l’automobilone non si è mai mosso dal parcheggio ma ogni sera, finito di lavorare, l’uomo va a casa, si lava, e vestito bene si accomoda al posto di guida e per una mezz’oretta si rilassa ascoltando l’autoradio. Tutte le sere, festivi compresi. Non voglio fare il sapientone, ma ho la quasi certezza che, pagata la rata, dato da mangiare alla famiglia, non gli rimanga nemmeno un euretto per dar da bere un litro di gasolio alla sua macchina che solo per muoversi dal parcheggio ne chiede una tanica.
Fra i molti sogni che un uomo può coltivare nel suo animo un Suv è tra i più a portata di mano, senza dubbio più abbordabile del sogno di un mondo di giustizia, della propria promozione sociale, di un futuro radioso per i propri figli. E mentre questi ultimi non godono di alcuna promozione pubblicitaria, il sogno del manovale è tra i più reclamizzati e socialmente condivisi. Infatti la signora italiana che fa la baby sitter al bimbo dei miei vicini sta mettendo da parte i soldi per coronare il sogno di suo figlio, un bravo padre di famiglia quarantenne: l’Alfa, finalmente, dopo una vita di sacrifici genitoriali, un’Alfa Romeo. Essendo il figliolo di carriera impiegatizia, ritengo che potrà far fare periodicamente alcuni chilometri al sogno della sua vita, risparmiando su altri consumi essenziali, potrà offrirle da bere qualche litrozzo giornaliero.
Credo che questi miei vicini possano aiutare a capire lo strano dato statistico che circola in questi giorni tra quelli che si stanno occupando a Bali dei mutamenti climatici. Si chiedono a Bali come mai l’Italia, naturalmente unica in Europa – abbiamo una vera e propria mania per l’unicità identitaria – aumenta, invece che ridurli come ha solennemente giurato a Kioto, l’emissione di gas serra, ed oggi è un paese più inquinante della schifosissima Cina. Non vedono, da Bali, un Paese in pieno boom economico che fuma da milioni di ciminiere, ma – attenzione – un Paese, unico nell’universo conosciuto, dove le automobili immatricolate hanno superato il numero delle persone in grado di portarle, con o senza patente. Interessante, non vi pare? Provate a trarre delle conseguenze da questo strabiliante primato. Provate a pensare cosa gliene può fregare agli italiani dei mutamenti climatici; provate solo a chiedervi se sanno di cosa si sta parlando quando si parla di gas serra, di risparmio energetico, di futuro del mondo. E provate a chiedervi ancora: cosa interessa veramente agli abitanti di questo Paese, di cosa sentono di aver bisogno, che non sia un pacchetto di eurazzi in tasca e un poliziotto sotto il portone. Per inciso abbiamo rispetto agli altri Paesi europei un 30% in più di polizia; più poliziotti di noi li ha solo Cipro, paese diviso in due dall’ultima cortina di ferro. Perché ci sono ma chissà dove, e ne vogliamo sempre di più.
L’altra settimana gli australiani sono andati alle urne e hanno cambiato il governo di destra con uno di sinistra. Lo hanno fatto dopo che il passato governo aveva abbattuto le tasse per un valore di 36 miliardi di dollari, in un momento di grande sviluppo economico, con l’occupazione ai massimi storici; dopo che quel governo aveva levato di torno tutti gli immigrati clandestini, ributtandoli a mare e ficcandoli in campi di concentramento nel deserto, esattamente come nei nostri sogni più arditi. I giornali australiani dicono che i cittadini hanno invece maturato priorità che il passato governo non sapeva affrontare correttamente, almeno a loro giudizio: una proficua salvaguardia dell’ambiente e una legislazione a tutela del lavoro dipendente. Priorità a noi del tutto sconosciute, o ritenute secondarie dalla maggior parte dei nostri elettori.
Ma quale dei due Paesi è normale? Quale è la normalità ragionevole in cui è desiderabile poter vivere? Non vi capita mai di avere orrore per una normalità che molti altri agognano? In questo Paese è quotidiana normalità che degli operai muoiano bruciati nell’olio di morchia. È normale che buona parte dei senatori che, appresa la ferale notizia, si sono alzati in piedi per un minuto di silenzio, solo un attimo prima a sentir parlare di tutela dei lavoratori si siamo messi a gridare contro i lacci e i laccioli che tarpano le ali alle imprese e allo sviluppo economico. Gli stessi che da un mese discutono di sicurezza dei cittadini urlando e scazzottando, e non che gli sia passato un solo attimo per la mente una parola circa la sicurezza dei cittadini che sgobbano in un cantiere edile o in un laminatoio. Ma la nostra normalità è frutto di una civiltà plurimillenaria, quella australiana da qualche decina di navi cariche di delinquenti e avventurieri confinati nel continente australe dalla giustizia della Corona britannica. Impossibile avere dubbi.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 9 dicembre 2007