Maurizio Maggiani: Lettera al direttore di un ospedale senza sapone

Tra il 1985 e il 1987 ho vissuto un’esperienza fondamentale per la formazione della mia adultità: gravemente ferito in un incidente stradale, ho passato gran parte di quel tempo all’ospedale civile Sant’Andrea della Spezia, la città dove vivevo. Risolto finalmente il mio problema – grazie, per altro, all’invenzione di un allora oscuro ortopedico russo sovietico ospite di un cattolicissimo ospedale bergamasco – la prima cosa che ho fatto, il primo atto della mia riconquistata autonomia deambulatoria, è stato di recarmi presso un’assicurazione e stipulare una polizza sanitaria.
Non avevo una lira a quel tempo, ma avevo chiara la certezza di preferire la fame piuttosto che contemplare l’eventualità di tornare a patire l’umiliazione, la frustrazione, la mortale desolazione di un nuovo ricovero in quell’ospedale. In quel lazzaretto. Governato dalla sinistra allora, in un modo che, raccontato, poteva essere scambiato per l’incubo paranoico di un comiziante dell’estrema destra. Un sistema di delirante – e sadica – inefficienza capace di frantumare non solo la volontà di vita dei cittadini ivi ricoverati, ma anche quella delle molte persone per bene, e capaci, e volenterose, ed eccellenti, che ci lavoravano.
Sono passati vent’anni e sono tornato al Sant’Andrea. Non per me, che mi sono protetto cambiando anche città, ma per i miei genitori, che assicurazioni sanitarie non ne hanno, visto che non sono cose quelle che possono permettersi un operaio in pensione e una casalinga. Ci vivo al Sant’Andrea da ormai una settimana. Non ci passo che poche ore al giorno, ma quelle ore bastano a segnare indelebilmente tutte le altre ore della mia giornata, dilagando nella mia vita, nelle mie relazioni, nella mia affettività; ovunque nel mio corpo e nella mia anima.
E ora voglio parlare al direttore generale di quell’ospedale. Da poco insediato, nominato dal governo di sinistra che ha di nuovo il potere sulla sanità dei cittadini di Liguria e persino della Spezia. Gli voglio parlare in pubblico, non sono interessato a un ricevimento privato, nel caso fosse contemplato tra i suoi doveri nei confronti della comunità, e non lo credo.
Gentile direttore, so come si chiama e so che faccia ha. Conosco la sua persona perché l’ho vista fotografata su questo giornale in occasione della sua visita all’ospedale modello San Bartolomeo di Sarzana – provincia della Spezia solo formalmente, ma Repubblica Socialista da sempre indipendente – accompagnato dalla autorità referenti del suo prestigioso incarico. Complimenti. Ma avrei preferito, le confesso, vedere un’altra immagine. Perché ho atteso da tanto tempo un mutamento, ho a lungo sperato nel ritorno della sinistra al governo della Regione e della sua salute, ho agognato percepire con chiarezza quello che, volgarmente, chiamano segnale di cambiamento. Dal mio punto di vista non sono gli assessori e gli onorevoli e i sindaci a conferirle incarichi, ma i cittadini che pagano il suo stipendio e il loro, dunque le racconto la fotografia che avrei voluto veder pubblicata.
So che lei si è recato in incognito – forse la forma ufficiale sarebbe stata meno fotogenica di quella al San Bartolomeo? – a visitare l’ospedale Sant’Andrea, dunque ha avuto agio di vedere quello che ho visto io già nella prima delle molte ore che vi ho trascorso. Avrei gradito la fotografia di lei che aiuta a nutrirsi – imbocca – la ragazza handicappata che ho visto con la faccia riversa sul suo piatto per un’ora, prima che una mano pietosa glielo togliesse di torno. Perché quella ragazza non ha parenti che l’accudiscano né soldi per pagare qualcuno che lo faccia, perché gli infermieri di turno sono due e i pazienti da accudire dieci volte tanto. Sempre che gli infermieri abbiano voglia di farlo, alcuni sì, altri no. Alcuni sanno farlo addirittura con garbo materno, altri con piglio da maniscalco.
Avrei apprezzato la fotografia di lei mentre inserisce freschi e voluminosi rotoli di carta igienica nei gabinetti, tutti quanti, che ne sono privi. Oppure mentre versa nel contenitore, inesistente, sopra ogni lavandino del detergente, prezioso, ma indispensabile presidio di profilassi sanitaria. Non c’è, direttore, un solo pezzo di sapone in tutto l’ospedale. Mi sarei congratulato nel vederla ritratto mentre stura i due, unici, bidet di un reparto rimasti intesati per 48 ore. Perché la squadra di manutenzione, se mai esiste, ha i tempi di intervento di quella della Telecom, non so se mi spiego. Mi sarei felicitato nel vederla consumare i pasti destinati ai pazienti. Quegli agglomerati di proteine, fibre, grassi che sono una vergogna del sistema di appalti al solo vederli, prima ancora di assaggiarli. E l’ho fatto, glielo giuro, per capire come mai mia madre, contadina di antica fame, non riusciva a nutrirsene.
L’avrei amata nel vederla ritratta mentre fa una visita notturna a mio padre – e ai molti come lui – che non riesce a dormire e piange perché si sente solo e sperduto. E mio padre è fortunato perché c’è chi si occupa della sua notte e della sua tristezza. A spese della famiglia, naturalmente, perché questo genere di sostegno non è di certo contemplato nel mansionario e il personale è appena sufficiente per le emergenze.
Sarebbero state immagini bellissime, confortanti, quelle che avrebbero senza il minimo dubbio significato “un segnale di vero cambiamento”. E le dirò una cosa di più, direttore. Per come la vedo io, un direttore generale stipendiato dai cittadini per garantire loro la salute, quando scopre che non c’è un pezzo di sapone per lavarsi le mani nel luogo più settico dell’università, esce, ne compra 50 chili di tasca sua – lo stipendio glielo consente – e poi, con serena fermezza, dà un’occhiata agli appalti. Poi, in serena coscienza, convoca assessori, sindaci e onorevoli, e li invita a sganciare, di tasca loro, il necessario per tutto il resto che è indispensabile e colpevolmente mancante.
E questo non è tutto, ma ciò che ho visto nella prima superficie della prima ora. Assieme alla constatazione che ancora ci sono, e di più, persone per bene ed eccellenti, ancora, dopo vent’anni frustrate nella loro più lodevole volontà. Assieme alla constatazione che la recente riduzione delle tasse che ha concesso un paio di pieni di gasolio gratis per il motoscafo di chi ama andarsi a prendere l’aperitivo a Portofino via mare, e a tutti gli altri di questo Paese, ancora un po’ di quel poco che aveva per la propria decenza.
Un’ultima cosa, e non per lei direttore. Il governo D’Alema fece fuori il ministro della Sanità Rosi Bindi perché odiata dalle corporazioni della sanità. Troveremo mai un governo – nazionale, regionale, locale – che faccia fuori un ministro perché odiato dai cittadini in deficit di cure e di sanità?

Tratto da “Il Secolo XIX, 31 luglio 2005