Maurizio Maggiani: La vita non è un film di Disney

Pensiamo che ci siano familiari, vicini, domestici. Li chiamiamo per nome e diamo loro del tu, così simili a noi, così sorprendentemente carini carezzabili, maschere benigne di noi stessi, metafore dell’innocenza che abbiamo perduto, della bontà che incontriamo sempre di meno tra i nostri colleghi di specie. Bisognosi di conforto come siamo, soprattutto come lo sono i nostri cuccioli, abbiamo accettato con entusiasmo la confortante idea che fossero davvero dei Flipper, dei Dumbo, dei Bambi, le mistificanti caricature antropomorfe che ha costruito Walt Disney per il nostro onesto trastullo in famiglia.
In verità non li conosciamo per niente, e possiamo sfiorare appena la profondità aliena del loro mondo, della loro anima, del loro vivere e del loro morire. Loro sono altrove, irrimediabilmente altrove anche quando passano un’intera vita assieme a noi, mangiando dalla nostra mano, dormendo al capezzale del nostro letto. E quel poco che veniamo a sapere non ce lo illumina Super Quarq, ma solo la sensibilità che impariamo, spartendo la vita con loro, ascoltandoli e guardandoli vivere con l’attento rispetto dei veri amici.
Allora è facile per un amico sapere quanto siano diversi da noi non solo per tutta la vita, ma anche, in modo straziante, soverchiante, nel tempo che dura la morte. In tale modo difformi da annichilire. Lo sa fin troppo bene chi ha visto morire il gatto o il cane di casa, una vacca della stalla, un coniglio della spia.
È come se per loro la morte fosse l’atto estremo di dignità della vita, e compiono questo atto appunto senza gli alti lamenti della nostra disperazione, senza il teatro del proprio dolore. Lo fanno, per quello che è loro possibile, se li lasciamo quieti almeno in quel momento, segretamente, in silenzio, nel posto più appartato che trovano. Lo fanno con una dignità che ci fa spavento, che ricordiamo a lungo, che ci ripromettiamo di imitare e che non imiteremo.
Non è giusto che qualcuno di quei bambini, e degli adulti, che hanno pensato l’altro giorno a Framura di aver ricevuto la visita giocosa del Flipper disneyano si senta in colpa per non aver capito. Non poteva capire, non sapeva dell’anima di un delfino più di quello che sa del gatto della strada di casa. Ma è giusto che impari qualcosa. Che ricordi il più a lungo e vividamente possibile di un delfino, di cui non ha potuto sapere né avrebbe potuto pronunciare il nome con cui era chiamato dai suoi, che è venuto a morire vicino a dove lui stava sguazzando nell’onda. Un delfino che, se proprio dobbiamo ridurlo a qualcosa di umano, non aveva intenzione di fare la stupida parte di Flipper, ma quella di Zorba il Greco, il gigante che con le sue ultime forze va cercando un buon posto, segreto e amato, per dare addio alla vita. Solo che Zorba è un uomo così raro da essere eroe e meritarsi un film; mentre sarà difficile che a qualcuno venga in mente di raccontare la storia di un giovane delfino qualunque in cerca di un po’ di pace per andarsene con dignità. Anche perché di pace non ce n’è più, in nessuna spiaggia di questo nostro mondo.
Maurizio Maggiani

“Tratto da “il Secolo XIX” del 28 luglio 2002″