Maurizio Maggiani: La prima volta che ho visto Genova a colpo d’occhio

Cosa fa di una città, una bella città. Per un attimo, per un giorno, per un anno, per l’eternità, una capitale della cultura? Quale è il gesto, l’evento, l’azione che la trasforma in un esempio, eccellendo per unicità tra le altre belle città d’Italia, d’Europa, del mondo? Occorre allestire una grande mostra di un prestigioso pittore, ripristinare magistralmente antichi palazzi, convocare dotti convegni, pubblicare perduti tesori letterari? No, per niente. Tutte queste sono, naturalmente, azioni di cultura, ma piccole azioni. La conservazione, la tutela e la promozione di ciò che è stato, del patrimonio culturale accumulato nel corso del tempo nel corso del tempo, è solo una parte del fare cultura, la parte routinaria, ciò che, per così dire, fa parte della corrente gestione. Il più dell’azione consiste nella sua natura progressiva, non conservativa.
Sta nel generare accadimenti che si proiettano nel futuro, che lo generano il futuro, dando luogo a ciò che ancora non è accaduto, creato, fatto, immaginato nell’infinito universo. La città che sa coltivare in sé un gesto artistico mai prima compiuto, un’idea che mette in discussione quelle già stabilite, che sa ospitare la contraddizione tra il già fatto e l’immaginabile, si fa allora unica e capitale.
Per questa ragione, se ancora non ho visto Rubens – e ci andrò, naturalmente, ci andrò; adesso con un po’ di calma mi organizzo e ci vado – non mi sono di certo perso Renzo Piano. La sua pubblica, gratuita offerta di un’idea. Sono andato e ho partecipato di un’importante azione culturale; la prima, per come la vedo io, di Genova come una città capitale della cultura.
Ciò che mi ha dato Renzo Piano è uno sguardo, la possibilità di dilatare il mio sguardo sulla città dove vivo. Nello spazio, nel tempo, nella materia, nell’immaginario. Nell’ascoltarlo, nel guardare i suoi modelli, io non mi sono neppure chiesto quanto sia ragionevole la sua idea, né quanto sia giusta. L’essenziale, lì, l’altra sera, per me è stato partecipare di un’immagine della città di Genova che per laprima volta mi si è dispiegata nella sua interezza. Ne ho provato un piacere fisico.
Genova è troppo complicata, Genova è troppo in su e troppo in giù, Genova è irriducibile, Genova resiste allo sguardo, si oppone alle immagini di sé. Ma ciò non vuol dire che debba essere fatta a pezzi. E che se ne buttino via quelli che non vanno bene, quelli che non rientrano nello sguardo, nell’orizzonte di chi ha avuto, un’epoca via l’altra, il coltello per affettarla. E’ difficile vederla in un unico colpo d’occhio tutta assieme, lo dice uno che ci prova in tutti i modi, arrampicandosi, immergendosi, cercando impossibili obiettivi fotografici che gli diano la vista orbicolare della mosca, ma non per questo è ragionevole che ci siano due, tre, quattro diverse città, separate ed opposte l’una all’altra. Ci sono incredibili varchi da oltrepassare, orrende barriere da sfondare – concettuali, fisiche, economiche, psicologiche – perché ci sia davvero una città di Genova da Nervi a Voltri. Quelle barriere e quei valichi non ce li ha lasciati una maledizione divina, ma umane politiche, umanissimi interessi. Ed errori, ed omissioni.
In questi giorni che la Via Aurea splende da farti girar la testa, che Rubens e le sue nobili ciccione fiammeggiano lì accanto, io ho passato un bel po’ di tempo a Ponente. Perché anche quella è Genova nell’anno capitale della cultura. Ho a lungo perlustrato la Fiumara, il centro commerciale, il centro di divertimenti, che è la sua via aurea, anche quella splendente. E mi pare di aver capito quanto si possa disprezzare una parte della comunità, essere crudamente classisti. Mentre il centro storico vive il suo rinascimento nella ricerca – riuscita – di uno standard elevato, addirittura superbo, il rinascimento di Via degli Operai si realizza nella perfetta mediocrità, nell’applicazione scientifica del basso standard. Perché questo, baby, è quello che vuole la gente. Tutto lì è mediocre, dalle architetture a ciò che si compra. E altro non si può fare di socievole e sociale alla Fiumara se non comprare.
Ci si faccia caso: si prova a trovare un qualche posto nell’immensa hall o nel divertimentificio dove sostare per il piacere di sostare senza dover comprare. Si provi a trovare luoghi illuminati e sonorizzati in modo accogliente, riposante, caldo. Ha grande successo questo luogo di socialità, ma quanto vero, concreto è il diritto della gente che lo frequenta di poter scegliere dove passare il suo tempo? Quanto è praticabile il principio di democrazia della cittadinanza che sancisce il diritto alla mobilità, a spostarsi nel tessuto urbano con facilità e a un costo tollerabile?
E’ per questo che ho provato un piacere così intenso la sera di Renzo Piano. Perché ero appena stato di là, nella città di Via degli Operai, dove pare che non si abbia diritto alla bellezza, diritto a Genova. E quello che mi raccontava Piano con la sua lunghissima bacchetta era di una città non più spezzata, afferrata, divisa, una città che avrei potuto vedere finalmente con un solo colpo d’occhio, una sola intenzione. E questo, baby, è roba di cultura.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 30 maggio 2004