Maurizio Maggiani: La piccola meraviglia
Ci sono cose nella città che non vedi mai. Non sono troppo piccole, a volte sono enormi. Le guardi ma non le vedi, ci inciampi e non ti chiedi nemmeno dove sei inciampato. Sono misteri, sono vuoti che la mente costruisce intorno a entità troppo singolari o troppo difformi per il suo comprendonio; sono forse squarci spazio temporali verso altre dimensioni, altre epoche, altri mondi. Sono più probabilmente la prova della nostra scarsa capacità di vivere tutto quello che la complessità della città ci offre.
L’altra mattina ho visto per la prima volta una roba su cui ho inciampato almeno mille volte. L’ho finalmente vista e ho fatto un viaggio stupefacente nel tempo. Sono entrato nel museo di Scienza Naturale di via Brigate Liguria.
Non credo che ci sia genovese che non ci sia passato davanti almeno cento volte; c’è passato, ma non l’ha visto. È inconfondibile, ma non esiste. Non esiste perché è inconfondibile: appartiene ad un’altra città. Forse una città scomparsa, forse sognata, forse una città costruita per un set cinematografico. Per uno di quei film bellissimi degli anni Cinquanta su gli scienziati folli e geniali dell’epoca vittoriana; film girati in set perennemente bagnati dalla pioggia, al fioco lume di lampade a gas. Il Museo è questo: è una grandiosa follia positiva generata dal secolo del positivismo, il secolo decimonono. Il secolo ottimista che ha voluto descrivere ogni cosa del mondo perché tutto il mondo e l’universo intero, compreso di anime e di dei, è descrivibile e catalogabile, comprensibile ed esemplificabile. È un edificio mirabile il Museo. La sua facciata è inquietante e languida, ponderosa e mite; è una facciata che rispecchia esattamente il temperamento dello scienziato in marsina e tabarro che ogni mattina, con indefessa cura, per lunghi decenni ne ha varcato l’ingresso per studiare la natura del mondo e svelarne all’umanità gli arcani domati.
I suoi interni sono ancora di più: sono il tempio della Scienza. Sono severi e benigni come la Dea, sono funzionali e pacatamente leggiadri come i mutandoni dei suoi sacerdoti. Belli di una bellezza incomprensibile agli occhi della contemporaneità; possono risultare addirittura odiosi per chi va di fretta. Non è stato pensato come un luogo per chi ha fretta il Museo; è stato pensato per chi desiderava dedicarsi alla comprensione e all’ammirazione della scienza naturale; un intento che non può essere esercitato con sguardo distratto. Tutto quello che il Museo contiene è nient’altro che la Meraviglia del Creato. Nient’altro che questo. Siccome per il positivista la Natura è di per sé meravigliosa, perfetta, singolare e irripetibile, il Museo è totalmente privo di ciò che oggi è considerato essenziale per qualunque genere di museo: gli effetti speciali. Lo spettacolo è garantito dalla Natura, senza bisogno di altro che di metterla in mostra. Ho visto tutto il Museo e credo di aver visto tutta la Natura. Non so dire con precisione, ma credo di aver passato in rassegna diverse centinaia di migliaia di “naturalia”. Voglio dire farfalle, ragni, pesci, plantigradi, primati antropomorfi, batraci, cristalli, uccelli, minerali. Ogni esemplare mostrato per quello che è, nell’assoluta fiducia che basti mostrarlo con scientifico puntiglio – con il suo nome e cognome nel cartellino scritto al pantografo – perché possa insegnare qualcosa a chiunque; all’inclita e al colto, al maestro e all’alunno. Il Museo è perfetto, cristallino, esemplare; è il monumento a un secolo, a un’idea della scienza e della conoscenza che forse oggi sono inservibili, ma che hanno generato la modernità. E la penicillina, e la scuola obbligatoria, e la laicità dello stato.
Spero che sia tutelato, sostenuto e incoraggiato come si sosterrebbe una biblioteca storica. C’erano nel Museo un signore con il suo nipotino, una giovane coppia con i suoi due figlioletti. Giravano per le sale in gita, tranquillamente, senza nessuna fretta. E senza schiamazzi, e senza voglio la coca cola, e senza dai comprami questo e quello; che tanto lì non c’è niente da comprare. Poca gente, pochi eletti che hanno saputo viaggiare nel tempo, varcare quello squarcio fantastico nel reticolo della città quotidiana che ti fa andare oltre ciò che solo guardi perché ci inciampi.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 12 ottobre 2003