Maurizio Maggiani: La morte di uomo
La morte di un uomo, di qualsiasi uomo in qualunque luogo per qualunque ragione, è una tragedia irreparabile. Niente può renderle ragione, come niente può colmare il vortice di vuoto che una morte crea nell’universo attraversato da colui che è stato una vita. Solo la vita può riscattare una morte, la vita che macina il tempo, e nel trascorrere del tempo sa insinuarsi nei più intimi anfratti, nelle più profonde lacune per riempirle di se stessa.
Eppure è come se l’uomo non fosse più capace di onorare la vita, di accenderne il lume, di celebrarla e assecondarla. Ciò che l’uomo ha imparato a fare è onorare e celebrare la morte, e attorno ad essa costruire architetture di grandiosa e superba fattura. Siamo incapaci di far prosperare la vita, ma siamo specializzati in lutto ed esequie.
Credo che questo abbia una ragione piuttosto banale. Visti da qualunque parte dell’Universo, visti con lo sguardo amorevole di Dio, con quello esterrefatto dei marziani, o con quello implacabile della storia, siamo, noi umanità, la più mostruosa, efficiente e prolifica macchina produttrice di morte che il creato abbia mai potuto patire. Si sono fatti dei conti al riguardo: negli ultimi sessanta anni non meno di 150 milioni di vite umane si sono spente a ragione di uno dei molti modi della violenza generata dall’uomo.
Salvo ignote razze di ignote galassie, niente, nemmeno tra le selvagge potenze distruttrici della natura, può competere con noi. Noi che sta per io, voi e tutti gli altri, se vale il principio di responsabilità che ci impongono il Dio di Abramo e il Buddha ed Emmanuel Kant e Carl Marx, e giù giù fino a John Lennon.. di fatto vi chiedo quanti tra noi possono in questo momento vantarsi di un banalissimo gesto di vita come: ho appena salvato un piccolo umano dalla morte per dissenteria, ho frapposto la mia mano tra un aggressore e un inerme. Si, qualcuno tra noi, ma quanti di noi? Mentre tutti noi abbiamo sulla coscienza, dovremmo avercelo, un piccolo gruppo di quei 150 milioni. Il simpatico, placido Tommy che sta arando con il suo trattore con aria condizionata il campo di cotone in Virginia godendo di un sussidio statale che copre l’80 per cento delle sue spese, ammazza di fame, e non lo sa neppure,ogni giorno un paio di contadini del Mali che arano con un chiodo di ferro e nessun sussidio il cotone che i mercati non vogliono più, visto che è più caro di quello di Tommy. E io che sto qui a scrivere, che ho fatto, davvero, perché alla parola Pace corrispondesse la Vita in Iraq, in Cecenia, sotto casa. Cosa ho fatto con le mie mani, con il mio voto, con il mio denaro, con la mia intelligenza? Cosa so fare per la vita se non lamentarne la fine prematura? Siamo specializzati in morte, cordoglio e funerali. Piangiamo i nostri morti e nessun altro, naturalmente, visto che non avremmo abbastanza lacrime, dato che non avremmo spalle per tollerare il peso dell’immensa responsabilità che dovremmo assumerci. Già, i nostri morti. Ma da vivi non erano mica poi così nostri. Ci interessa forse sapere cosa stanno facendo i “nostri” ragazzi vivi e vegeti a Nassiria? Saperlo davvero, voglio dire, non buttare giù due panzane retoriche: sapere e sentircene responsabili, responsabili delle loro azioni condotte per conto nostro. Questo è ciò che pretende il “nostri”. Ed era forse nostro Enzo Baldoni, da uomo vivo, pensante, operante? Nostro di chi? Forse mio, si, forse del settimanale “Diario”, certo dei suoi figli, dei suoi amici. Oggi è di tutti noi, ma da vivo non era nemmeno della Croce Rossa, se è vero che il convoglio non ha nemmeno rallentato quando lo hanno portato via. Celebriamo le esequie del “nostro” con un chiasso assordante, mascherati di un lutto teatrale, terrorizzati all’idea che potremmo essere responsabili anche della sua morte, desiderosi solo di costruire il più grande sepolcro possibile, perché il “nostro” morto ci possa scomparire per sempre. Sigillare i sepolcri, è la parola d’ordine, ripulire intorno dai resti, suonare a perdifiato le fanfare perché ci intontiscano il cuore che ci è rimasto. Così la morte diventa tollerabile, un puro fatto estetico, un meraviglioso teatrino per i nostri buoni sentimenti a posteriori. Quel genere di sentimenti che non costa, che non impegna, quel genere di pianto che rinfranca e ci fa star meglio. L’unico gesto di umana dignità e amorevolezza vera, che ho visto in questi giorni di lutto per Enzo Baldoni è fatto delle tre parole in croce della moglie che ha chiesto all’apparato delle esequie: per favore sparite.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 29 agosto 2004