Maurizio Maggiani: La fobia del Terzo millennio è morire di caldo

Ho paura di morire di caldo. Per come la vedo io, non si tratta più di climatologi che discutono su come andrà a finire e se andrà a finire in qualche modo che riescono a immaginarsi, e non è neppure più questione del 2050 o del 2100, ma se ce la farò quando verrà, se verrà l’anno prossimo o quell’altro ancora. Il Grande Caldo che non ce la farò a sopportare, quello che mi schiatterà. Sento nel mio corpo una nuova fragilità, l’ascolto, la compulso, la considero, e mi fa paura. Perché non so come curarla e come curarmene.
È una faccenda di questo inverno. Questo inverno lo sto passando che sono sempre ammalato; ammalato di caldo. Non riesco più ad avere freddo, il mio corpo si sta spossando di sudori, si sta infradiciando di vapori di umidità. Quei due o tre giorni di tramontana me li sono sorbiti come un elisir, ma sono durati troppo poco per curarmi; e dopo la tramontana, da un’ora all’altra, giù una versata di scirocco che mi si accapponava la pelle, mi si rizzavano i capelli, e il naso, la gola, i bronchi si torcevano e si enfiavano cercando inutilmente di spurgare un po’ d’acqua. Ci sono certi giorni di questo inverno che mi sento come un carabottino che non riesco a spaiolare. E siamo a gennaio, e penso a maggio, a giugno e più giù ancora, a luglio e agosto e settembre. Ho paura di quando verrà l’estate, ho paura di me come ci arriverò e di come riuscirò a venirne fuori. E poi penso che il prossimo inverno sarà come questo, e forse peggio. Anzi, peggio senz’altro; perché il mio corpo fragile non si sarà rinvigorito di niente, perché quando ti informi, ti rispondono che non andrà mai più meglio, ma solo peggio.
A me il caldo è sempre piaciuto, ma mi è sempre piaciuto anche il freddo. Il caldo mi è sempre stato amico, il freddo no. Sono cresciuto con i calzonetti corti e con i geloni alle ginocchia; e anche alle nocche della dita, se è per questo. Sono cresciuto con il “prete” nel letto – sagace definizione dello scaldino con la brace di carbonella che scaldava le lenzuola intanto che la famiglia cenava – e i cristalli di brina alle finestre, starnutendo appena poggiavo la mattina il piede fuori dal letto, gelandomi il pisello per andare a fare pipì nel cesso.
No, non era un amico il freddo dell’inverno, ma era buono e mi faceva bene. D’inverno si sistemano per benino le cose che sono successe d’estate, si fanno i conti con calma, si usa quello che è avanzato; il freddo consuma il surplus, rallenta il metabolismo, placa, ammorbidisce e sfibra le durezze. Se l’estate irrobustisce di fuori, l’inverno irrobustisce di dentro. Arriva primavera e sei pronto, puoi cominciare da capo, puoi metterti a caracollare, puoi cominciare ad agire e qualche volta essere pure sventato; hai pensato abbastanza durante l’inverno, sai cosa hai da fare, sai come fare.
Quando arrivava il caldo era magnifico, perché c’era stato il freddo. Avevi un ritmo, quando stavi bene davvero, danzavi nelle stagioni. Prendevi il caldo in faccia e ti entrava dentro, e ti asciugava, ti ripuliva. Se avevi pensato troppo durante l’inverno, per prima cosa il caldo faceva una cernita. E arrivava luglio, e l’estate ti prendeva di petto e ti sfidava; la calura ti metteva alla prova, provava a piegarti. E tu avevi messo da aperte abbastanza forza per giocare a braccio di ferro con il solleone; era magnifico: d’estate eri veramente uomo, animale, albero. Ti buttavi su un’ombra stremato, e quando ti rialzavi eri più forte. Il sudore ti appannava lo sguardo, cacciavi la testa sotto l’acqua e quando tornavi a guardarti intorno ci vedevi più chiaro e più lontano.
Sarebbe tornato l’inverno, dovevi portare con te più calore possibile. A ottobre facevi due starnuti, capivi, e cambiavi di passo, te ne andavi incontro al freddo avendo preso con te, affardellato nel tuo corpo, tutto quello che ti serviva. E ancora un volgere di stagione. Sarebbe durato così per sempre; potevi avere molti dubbi sulla vita, ma non a questo riguardo. Molte cose avrebbero potuto guastarti, ma certo ti avrebbe salvato la grazia d’iddio che ti aveva fatto dono di nascere in una riviera di clima temperato.
E io, ora, da qui, guardo all’estate come all’intemperia a cui forse non saprò resistere. Da qui, da questo umidore malsano e tiepido, incubatore di marcescente: come posso smaltire quello che ho accumulato, consumare il sovrappiù, pensare serenamente? Come posso prepararmi al peggio, se la mia genetica ricorda che ad aprile comincerà il meglio? Il mio corpo e il mio animo sono troppo fragili e disorientati per sapersi regolare nella prossima ventura stagione degli uragani.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 21 gennaio 2007