Maurizio Maggiani: Io pacifista con la pistola in cerca del mio bersaglio
Vorrei raccontarvi dello sport, della disciplina sportiva, a cui mi applico con grande passione da un po’ di tempo. Probabilmente vi sorprenderà, come ancora non cessa di sorprendere me stesso. Del camminare per la terra, del nuotare nel mare me ne sono fatto una passione pulsiva e costante, come di una manifestazione del vivere puro e semplice, una necessità profonda a cui posso applicare solo regole primitive: non affogare, non perdermi. Non ho mai sentito la necessità di farne uno sport, di gareggiare, di cimentarmi, ottenere risultati in competizione con qualcun altro, mai. Del pallone ho fatto un gioco della mia fanciullezza, dello sci il tentativo, mai ben riuscito, di correre senza affondare sulla neve, della motocicletta il modo di fare il mio ingresso nella maturità con le stampelle. Lo sport che invece ho eletto a mio cimento di uomo adulto è il tiro al bersaglio. Ho la tessera Coni del Tiro a Segno Nazionale, ho una carabina e una pistola adatte a praticare la suddetta disciplina. Dunque, io che sono un indeflettibile pacifista, io che aborro la violenza sotto ogni forma si manifesti e ripudio la guerra sotto qualsivoglia forma si mascheri, io che l’ultima volta che sono andato a caccia mi ha portato mio nonno Garibaldi e avevo dieci anni, io possiedo e uso delle armi. Armi sportive, ma armi. Non fanno bum, perché essendo ad aria compressa fanno toc, ma sono armi. Inadatte a ferire e men che mai ad uccidere, ma armi regolamentate dalle leggi di pubblica sicurezza. Sparano proiettili da mezzo grammo, ma pur sempre pezzetti di piombo, dello stesso piombo di un proiettile mortale. Proiettili a testa piatta per perforare con un foro netto un bersaglio di cartoncino, ma è un buco quello che fanno, un buco tale e quale qualsiasi arma. Eppure, quando mi pongo davanti al bersaglio laggiù, quando con la mia imperfetta vista cerco di mettere a fuoco quella testa di spillo che a dieci metri mi risulta essere il talloncino di carta regolamentare con dentro dieci cerchietti concentrici e nel mezzo lo devo intuire perché non lo posso vedere un niente del diametro di cinque millimetri, il cerchietto del 10, il centro, il punto massimo, ecco, non mi sento un depravato, un frustrato, un cripto pistolero, un traditore degli ideali: mi sento un uomo che vuole centrare un bersaglio. E che per farlo accetta di sottoporsi a una disciplina che coinvolge tutto il suo corpo, tutto il suo spirito. La prima cosa che ho imparato è la verità del famoso detto zen: se vuoi colpire il bersaglio tu devi essere la freccia, tu devi essere il bersaglio. Perché questo accada, perché io possa avere la fondata speranza di riuscire a forare il cerchietto del 10, ho imparato sto imparando e dovrò ancora imparare a concentrarmi e a trovare rilassato equilibrio nella concentrazione, rinunciando a qualunque impulso aggressivo, a ogni tentazione di spavalderia. Imparare a regolare il respiro, imparare a modellare i muscoli, cercare e trovare un equilibrio perché una carabina pesante cinque chili e un leggerissimo proiettile siano tutt’uno con il mio corpo, con la mia mente, con ciò che io sono: arma e bersaglio. A questo mi applico con una costanza che, data la mia indole irrequieta, continua a sorprendermi. Non sono un gran tiratore, sono troppo vecchio per diventarlo, non riuscirò mai a fare quello che ho visto fare da una ragazza e che è la normalità in una gara: infilare per dieci volte consecutive un buco dentro un buco nel cerchietto 10. Eppure non cesso di cimentarmi. E ogni tanto faccio anch’io il mio 10. Ed è una conquista, anche se so che è semplicemente l’unica cosa che devo fare. Il 9, l’8, il 7 non sono punti, sono errori. Nonostante la mia dedizione commetto un’infinità di errori, ed accettare la verità che si tratta di errori e non di risultati minori è un’ulteriore disciplina. Mi hanno insegnato queste cose persone più giovani e più vecchie di me, uomini e donne con cui ho conversato di molte cose senza trovare mai traccia di temperamenti aggressivi, esaltati. Eppure quello che fanno, che faccio, è usare un’arma. Per colpire nel centro esatto un pezzo di carta, per centrare un bersaglio. E non sento nessuna contraddizione con quello che penso circa la bellezza della mitezza, la pratica della non violenza. Forse perché, solo da adulto, ho capito che centrare un bersaglio, non sottrarsi al dovere di avere un bersaglio e di centrarlo, è ciò che ogni umano deve saper fare. Saperlo fare senza confonderlo con i moti distruttivi che pure risiedono in ogni animo. Sapendo che solo rinunciando a quei moti gli sarà possibile centrare il punto quasi invisibile che risulta essere qualunque obiettivo alla vista sempre imperfetta di ognuno.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 15 gennaio 2006