Maurizio Maggiani: Io, il mio amico ebreo e la difficoltà di parlare di Israele

Mi è capitata nei giorni scorsi una cosa strana e brutta, persino difficile da raccontare. Ho incontrato, finalmente dopo tanto tempo, il mio amico Augusto. Ci siamo abbracciati, pizzicate le guance, arruffati i capelli, i suoi diventati molto più bianchi dei miei, e ci siamo fermati un poco a parlare del più e del meno. Sono stato io a fare in modo di parlare di banalità, non certo lui: Augusto è un genio libero e folle e tutto ci si può aspettare da un incontro con lui tranne che parlare del tempo. Sono cresciuto con Augusto discutendo e litigando sull’universo intero, lo vedo dopo anni e annego una stupenda opportunità nelle banalità: è stato orribile.
Ma Augusto è ebreo. E se questo non ha mai significato nulla riguardo a ciò che abbiamo fatto e detto assieme, l’altro giorno ha significato qualcosa. L’altro giorno mentre lui era lo stesso di sempre, io evidentemente no: io ho avuto paura della mia spontaneità, ho pensato di poter essere poco attento alle sue supponibili sensibilità; come se fosse un estraneo, come se non lo conoscessi come lo spirito più libero e dissacrante che ho mai conosciuto. Meglio evitare, ho pensato, i discorsi importanti, perché non potranno che riguardare Israele e la Palestina, e io non posso parlare con Augusto misurando le parole, evitando di scherzare su tutto, Iddio compreso, così come abbiamo sempre fatto. Chissà cosa avrà pensato Augusto di me, della mia stupida ritrosia, di quello che non può aver visto che come fatuo distacco. Perché non è lui ad avere un problema, sono io che ce l’ho; un problema che non avrei mai pensato di potere avere: fare la massima attenzione alle parole e ai toni che uso con un amico ebreo.
Ma oggi è così. Sto proiettando come sottile paranoia un comportamento cauteloso, come se dovessi fare i conti con un vago senso di colpa e liberarmi dal sospetto che, in fondo in fondo, neppure io posso essere esente da una qualche subdola forma di antisemitismo. Non credo di poter essere antisemita neppure per sbaglio. Cresciuto assieme ad Augusto, non mi sono mai posto di fronte a lui, o a suo padre o a sua nonna, in nessun modo speciale, per la semplice ragione che nessuno di loro si è mai proposto in quel modo. Cresciuto in una famiglia di antifascisti, sono stato educato ad associare antisemitismo, razzismo e fascismo, e a spartire tra loro il mio obbrobrio in parti uguali e indistinguibili. Ma basta che si allarghi a sufficienza il concetto di antisemitismo e allora posso finirci dentro anch’io.
Nel mio modo semplice di vedere, ho pensato a lungo che l’antisemitismo fosse odio razziale, odio culturale, odio politico verso un popolo e i suoi individui. Odio che ha generato non troppo tempo fa, nell’Europa della mia civiltà, volontà e pratica di sterminio. Ma questa visione delle cose forse è troppo rozza, certamente oggi insufficiente. Oggi, pur sentendo il mio cuore libero da qualunque forma di odio verso qualsivoglia popolo individuo, sono indotto a chiedermi s questo basti, se basti almeno nei confronti del popolo ebraico. Credo di no, sono continuamente sospinto a pensare che non basti. Sono chiamato ad aderire alla causa ebraica, ad aderirvi attivamente e lealmente. Sono osservato, le mie opinioni lo sono, perché esprimono correttamente questa adesione.
Il problema, oggi posto in forma radicalmente nuova, è Israele. No, il problema è quello che accade da un anno in Israele e nei Territori Palestinesi. L’occupazione, gli attentati suicidi. Il problema è – mi viene ripetuto ossessivamente – che l’avversione alla politica di Israele è il primo pericoloso passo verso l’odio per Israele, e l’odio per Israele è già odio per il popolo ebraico. Di contro, la simpatia per il popolo palestinese è adesione a ciò che esprime con più evidenza di immagine: il terrorismo, dunque è adesione alla peggiore forma di antisemitismo. Quando ho espresso liberamente su questo giornale le mie opinioni sulla politica di Sharon e sulle responsabilità di Israele, ho ricevuto diverse lettere che mi accusano di antisemitismo.
Mi sono imposto da alcuni mesi una sorta di censura preventiva: l informazioni che utilizzo circa la situazione in Israele e Palestina le ricavo da un’unica fonte, dal giornale “Ha’aretz”, quotidiano israeliano di centro-sinistra. Posso dire che ciò che penso al riguardo non è che la trascrizione di editoriali di quel giornale. Allargando ancora il concetto di antisemitismo, anche “Ha’aretz” può risultare antisemita? Vado al cinema a vedere l’ultimo film di Amos Gitai, mi chiedo per quanto tempo ancora il regista ebreo-israeliano potrà fare i suoi film senza esserne accusato anche lui. No, questo non accadrà, perché un ebreo non può essere antisemita. Mi trovo dunque nella condizione di non poter vantare su Israele la stessa libertà di pensiero di un israeliano, o di un qualunque altro ebreo della diaspora, mettiamo Woody Allen.
Credo che in tutto ciò si celi un grave pericolo, un pericolo per la comunità ebraica innanzi tutto. Allargare indefinitivamente il concetto di antisemitismo, porterà alla fine a farlo perdere di senso. Così come allargare il concetto di terrorismo o di fascismo, o qualunque altro concetto. Gridare terrorista a Cofferati, fascista a Berlusconi, antisemita a Santoro è un pessimo servizio non solo alla verità, ma a chi davvero combatte contro il terrorismo, fascismo antisemitismo. Alla fine quelli veri non saranno più riconoscibili.
C’è una cosa che la comunità ebraica può fare, ed è essenziale per tutti noi. Fare chiarezza, stabilire quello che altri non possono: i confini ragionevoli entro cui riconoscere chi odia il popolo ebraico agisce di conseguenza. Non possiamo colpevolizzarci, sospettare di noi stessi, accettare il fatto che come occidentali e gentili siamo nati nella civiltà della Shoah, che i suoi germi sono immortali, ma non sarà possibile tollerare questo stress indefinitivamente. Saremmo tentati di lasciarcelo alle spalle, dimenticare, così come sempre è accaduto. Aiutateci a non farlo, aiutateci a ricordare, ma soprattutto a usare il ricordo per dare dignità fecondità alla vita.
Io, per me, quello che voglio ora è incontrare ancora Augusto, le cui opinioni su Sharon, per inciso, sono qui irripetibili, e avere l’onore di sbronzarmi con lui. Sbronzarmi, fare la pipì in compagnia come ai vecchi tempi e, come è sempre accaduto, prenderlo in giro per il suo pisello circonciso sentirmi da lui preso in giro per il mio che non lo è.

Tratto da “il Secolo XIX”, 27 giugno 2002