Maurizio Maggiani: Il ruolo dell’Onu

Un anno fa, in concordia con altri primi ministri e presidenti, il primo ministro di questo paese giustificava l’occupazione americana dell’Iraq per via della conclamata incapacità dell’Onu di risolvere le contese internazionali; un organismo, diceva, superato dalla storia, ostaggio di una maggioranza di paesi antidemocratici. Oggi, gli stessi uomini confidano nell’Onu perché ci metta una pezza in ciò che loro hanno guastato e ora capiscono di non saper riparare. Un anno fa, la gran parte di chi si opponeva all’occupazione, lo faceva innanzitutto per la sua illegalità, perorando “la causa” dell’Onu.
Chi si opponeva alla guerra era convinto che solo quell’organismo, lungi dall’essere obsoleto, avesse l’investitura politica e morale per esercitare un potere superiore alla sovranità delle nazioni. Quegli uomini continuano a crederlo e, se possibile, lo credono con maggiore convinzione. Dunque tutti quanti oggi confidano nell’Onu; meglio, si aggrappano all’Onu come al relitto che miracolosamente galleggia dopo il naufragio. Per sincera convinzione o per opportunismo, questo è quello che dicono di pensare. Ma sorge una domanda: a cosa ci aggrappiamo all’Onu? In cosa confidiamo quando confidiamo nelle Nazioni Unite?
Da un punto di vista puramente astratto, se leggiamo i discorsi del suo segretario generale e dei funzionari responsabili dei suoi molti settori, l’Onu è tuttora l’unica istituzione basata su ideali morali in grado di impedire che il mondo “torni a precipitare nell’inferno”. Sono le parole queste di Eleonor Roosevelt, che, pur essendo una first lady, è stata anche una grande intellettuale, un geniale politico e uno dei massimi promotori della fondazione delle Nazioni Unite. L’inferno ai tempi di Eleonor era il nazismo, e infatti i soci fondatori dell’Onu furono gli stati che lo sconfissero; stati che tuttora, per antiche ragioni fondanti, con il diritto di veto ne sono i tutori.
Se invece vogliamo attenerci alla dura realtà, allora scopriamo che l’Onu assai raramente ha saputo e voluto esercitare efficacemente la sua autorità, praticare quel dovere morale per cui è nato, un dovere di gratuità generosità. Anzi, se solo prendiamo gli ultimi dieci anni di storia del mondo, scopriamo che è una storia di disastri, una discesa senza freni agli inferi per molti popoli al mondo. Nell’oscena graduatoria delle tragedie, i Balcani e il Ruanda sono stati senz’altro ai vertici, e lì l’Onu ha fallito. A dieci anni dalla più sporca guerra civile del secolo ancora oggi le truppe e i funzionari dell’Onu stanno lì ad assistere e sussistere una pace e una riconciliazione incompiute e prive di verità, nate su presupposti fallaci. Oggi Bosnia e Kosovo sono fantasmi di stati e comunità, incapaci, forse in eterno, di esistere senza la patria potestà di quei soldati e quei funzionari. E dei denari che sono venuti con loro.
A proposito, conoscete l’ultima notizia che ci viene dal Kossovo? L’uccisione di cinque soldati Onu di nazionalità giordana e americana. Non sono stati i terroristi, si sono ammazzati tra loro, a seguito di una franca e aperta discussione tra commilitoni sulla situazione irachena.
In Ruanda, or sono dieci anni, è successo, semplicemente, il genocidio di un popolo. Indisturbato, compiuto a tempo di record. Siccome si tratta di un popolo di neri senza arte né parte che non ha mai dato alla luce, e a questo punto mai lo darà, uno Spinoza o un Mahler, nessuno ha mosso un dito. Men che meno l’Onu, che ha aderito alla richiesta dell’amministrazione Clinton di evitare nei suoi rapporti la parola genocidio, onde non dover essere obbligati a trarre le dovute conseguenze politiche, morali e militari. Il Ruanda è ininfluente ai fini degli interessi strategici degli aventi diritto al veto. Oggi, a dieci anni di distanza, sì, il genocidio è finalmente chiamato con il suo nome, ma alle cerimonie che si sono svolte per ricordarlo non c’era nessuno tra quelli che potevano evitarlo.
Nemmeno il pur nero Kofi Annan. Il quale al tempo del Ruanda era il responsabile delle operazioni di peace keeping che non ci sono state. Da segretario generale invece, ha mandato i suoi uomini in Afghanistan. Ve lo ricordate l’Afghanistan? La donne che giubilavano all’arrivo dell’Occidente stracciandosi dal volto il burka che le teneva prigioniere? Oggi se lo sono rimesse di nuovo tutte, i funzionari dell’uomo mandano a New York rapporti raccapriccianti sul totale abbandono in cui è ridotto il paese, e gli americani trattano con i talebani per tentare di mettere un limite all’onnipotenza dei signori della guerra, gli eroi della guerra contro Al Qaeida, che battagliano per il controllo del fiorente mercato dell’oppio e delle armi.
Per finire, come è ben noto, la Palestina è per le Nazioni Unite territorio off shore: ci saranno ancora un milione di risoluzioni sulla questione israelo palestinese e mille piani di pace, ma senza possibilità alcune di essere messi in pratica imponendo il diritto internazionale sugli egoismi nazionali, come da statuto dell’Onu.
Tutto questo perché l’Onu non è altro che noi stessi, fatto con la nostra stessa pasta. E noi, ciascun paese con il suo grado di potere e conseguente responsabilità, non possiamo vantare agli occhi della storia, agli occhi di Dio, un solo atto di sincera generosità da un bel pezzo ormai.
Quello che abbiamo saputo fare con diuturna applicazione, in nome dei “superiori interessi” di ciascun paese – e più potente è il paese più vasti e indiscutibili sono i suoi interessi, naturalmente – è ammalare il mondo, renderne la sofferenza incurabile. E il massimo a cui può aspirare l’Onu, l’istanza più alta del dovere morale collettivo, è di funzionare come le attuali cure per l’Aids: trasformare una malattia acuta e mortale in una malattia cronica che sposti il decesso un poco più in là nel tempo. Cronicizzare e rendere sopportabile alla vista l’infezione. L’Onu non è in grado di guarire il mondo perché non siamo capaci noi farlo e di volerlo fare, ma una cosa sa farla: far sparire le tragedie nel grande sacco nero del tempo e cancellarle dalle prime pagine dei giornali. Almeno da quelli più letti dagli elettori.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 23 maggio 2004