Maurizio Maggiani: Il parroco fa cultura, il city manager fa fico

All’indomani della sconfitta elettorale di cinque anni or sono, Massimo D’Alema, ebbe a dire: non ci siamo fatti capire dagli italiani. All’indomani della sconfitta referendaria della settimana scorsa, Piero Fassino ebbe a dire: forse non abbiamo capito il Paese. L’aggiunta del forse è solo una questione di temperamento e carattere, quello che non cambia, anche invertendo l’ordine dei fattori, è che pare ci sia un problema di comprensione da un po’ di tempo a questa parte tra la sinistra e il paese. Come gli antropologi e i sociologi ci insegnano, un difetto di comprensione tra più persone e gruppi denuncia un problema culturale. Bene, parliamo un po’ di cultura che riguarda le relazioni tra l’amministrazione politica e i cittadini. E al riguardo io la penso come segue.
Fare discorsi di per sé non è un grosso evento culturale. Neppure inaugurare un bel museo di fatto lo è. E nemmeno, per dire, finanziare una benemerita istituzione musicale. Fare cultura riguarda per l’appunto il fare e come il fare modifica le cose e le caratterizza in uno specifico modo. Un discorso diventa cultura quando la sua forza è tale da condizionare il comportamento di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta. Sì, certi discorsi possono cambiare la vita. I have a dream di Martin Luther King ha cambiato la storia di una nazione ed è stato un grandioso fatto culturale. Anche il famoso discorso televisivo del “contratto con gli italiani” dell’attuale primo ministro è stato un grosso fatto culturale, proprio perché ha cambiato, e in modo straordinario, questo Paese. Sta ai lettori riflettere sulla natura e sugli effetti dei due discorsi, e nel caso distinguere.
E se la costruzione di un museo riesce a cambiare la vita di una città, e riesce a farlo la nascita di una bando musicale, allora quelli sono fatti culturali. Fatti di politica culturale. Dove è facile distinguere, perché non si tratta di parole ma di cose, di materia concreta, una cultura progressista da una conservatrice, una radicale da una reazionaria. Basta osservare il verso in cui cambiano le cose. Se usiamo questo semplice metro – e i cittadini, qualunque cosa ne pensino le ditte appaltatrici di immagine, sono naturalmente portati a valutare la realtà in base ai fatti reali – diventa anche facile constatare come la sinistra sia piuttosto deboluccia come roba di cultura. La sinistra che ha governato il Paese e continua a governare gran parte delle comunità locali. Quanto e in che modo è cambiata l’Italia dal ’96 al 2001? Cosa e in che direzione sta mutando la vita delle comunità amministrate?
Per rimanere sul concreto voglio farvi l’esempio dei mio ineffabile nipotino Richi. Sono finite le scuole e sua madre, un’impiegata che da sola sostiene se stessa e il figlio, si è drammaticamente posta il problema del “che fare” di Richi. Lei come migliaia di altre madri, con o senza marito, che devono sgobbare e il lusso di fare tre mesi di vacanza con i propri figli non se lo possono permettere. Chi è venuto incontro ai bisogni di Richi e di sua madre? L’amministrazione di sinistra che governa la città da trent’anni? No, la sua era un’offerta di servizi troppo limitata, inadeguata alle loro esigenze pratiche, reali. E pensare che è una città che si pubblicizza come il posto ideale per far crescere i bambini! È stata invece la parrocchia.
Richi sta andando a fare cose molto interessanti e divertenti, formative e salutari, accudito dal parroco e da un gruppo di ragazzi che volontariamente si dedicano al benessere dei bambini del quartiere. Mi sono informato ed è così in diversi quartieri della città, soprattutto, ed è naturale, nei quartieri dove maggiore è il disagio. Da anni le cose vanno in questo modo. Ma non da sempre. Negli anni Settanta e Ottanta l’amministrazione della città, allora come oggi di sinistra, si era fatta una passione della qualità dei suoi bambini e dei ragazzi mettendo a disposizione della comunità servizi eccellenti. Per questo, e non solo per questo, la città era cambiata, cambiata in meglio: la vita della gente era migliorata in modo tattile, in quegli aspetti che sono la cura di una politica di sinistra, in una cultura che avremmo senza esitazione definito progressista. E il personale politico capiva la gente e la gente capiva il personale politico. Che per attuare i suoi programmi rischiava addirittura la galera in un’epoca dove le competenze degli enti locali erano assai più limitate di oggi.
Quel personale politico raccoglieva attorno a sé i volenterosi della comunità, e tutti lavoravano duramente in modo non troppo diverso dai ragazzi che stanno accudendo Richi. In modo volontaristico e ricco di ideali e valori. Per due lire, naturalmente, visto che gli appannaggi di quegli anni schiferebbero un disoccupato di oggi, per niente addirittura. Quella politica e i suoi uomini sono finiti da un pezzo. Sostituiti da altro e da altri.
Durante il governo nazionale di centro sinistra diversi tra quelli che stavano giocando con il Piccolo Chimico del potere hanno addirittura teorizzato che i servizi sociali e culturali, la cura del benessere morale della comunità, era roba da parrocchie, da volontariato: meglio se cattolico, dicevano, che loro hanno più spirito di sacrificio e sono meglio organizzati. Dicevano questo e passavano a cose più serie; c’era da discutere con il presidente degli Stati Uniti l’assetto dell’universo, e avevano appuntamento con il sarto. Nelle città invece, più modestamente, gli amministratori dicono: non ci sono più soldi. Tagliamo i servizi perché non abbiamo da pagargli. Naturalmente è vero. Ma solo in parte.
Date un’occhiata ai bilanci di una qualunque città come quella di Richi. Confrontate la voci del bilancio di quest’anno con quelli di trenta, venti anni fa. Oggi si spendono cifre notevoli per l’immagine. Si spendono soldi per dire in modo carino che non ci sono soldi, per convincere i cittadini che la città non fa così schifo come la loro difettosa percezione li porterebbe a credere.
La città di Richi ha un city manager che le costa cento volte quanto spende la parrocchia per accudire i bambini del quartiere, e sarebbe interessante misurare se il city manager ha reso alla comunità servizi maggiori, uguali o minori a quelli della parrocchia. Ma averci un city manager fa molto fico. Come fanno la loro figura i presidenti di qualcosa, gli amministratori e i direttori generali di qualcos’altro istituito in nome di un’efficienza e una modernizzazione che non diventa mai materia concreta, ma progresso reale di vita.
Come è meraviglioso averci più musei che a Parigi, in proporzione, che costano alla comunità quanto un secolo di estati sane e istruttive per tutti i suoi bambini. E dieci parchi giochi in aggiunta. E sarebbe interessante chiedersi quanto i bei musei hanno cambiato e stiano cambiando la vita della città, quanto siano azione culturale, eventi progressivi generatori di cultura. O non siano immagine. Perché mentre il parroco sgobba ed è convinto che ciò che fa la sua missione gli chiede è fare azioni positive che generino positività, chi amministra la città ha una visione più sfumata del suo compito. Una visione che lo colloca in un altrove di strategie globali, fatto di acronimi in lingua inglese, che il popolo deve percepire attraverso immagini persuasive, affinché non lo distolga con contingenze fuorvianti.
Il parroco fa cultura, crea realtà, e la comunità lo capisce. Non lo sfiora nemmeno il dubbio se ha capito gli italiani o se il Paese ha capito lui.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 19 giugno 2005