Maurizio Maggiani: Il mio ulivo sul balcone sognando tempi migliori

Ieri ho potato il mio ulivo. Un lavoro di mezz’ora, ma un lavoro delicato e fine. Forse è l’unico lavoro che so davvero fare con queste mie mani; un lavoro vero, non una roba astratta come scrivere, qualcosa che ha a che fare direttamente con la materia e la vita, e l’immediata cruda responsabilità che ne deriva.
Il mio ulivo ha 15 anni, da dodici lo poto. L’ho piantato io, miracolosamente riuscendo a radicare una ferla, e io l’ho innestato, altro miracolo riuscito contro ogni previsione. Quest’anno mi ha fatto un chilo di olive, l’anno passato qualcuna di più; se fermo per tempo la mosca, il ragnetto e la cocciniglia, le olive le metto in salamoia e le posso con giusto orgoglio offrire ai convitati: le olive del mio ulivetto di su.
Già, il mio ulivo vive in una bagnarola di sopra, sul terrazzo della mia vecchia casa di Spezia. E’ florido come lo può essere un ulivo in bagnarola, delicato come un bambino cagionevole, ogni oliva che matura mi costa quanto una bottiglia d’olio commerciale. Ho combattuto per la sua vita bibliche battaglie contro la bica assassina, che otto anni fa si è fatta tana nel giovane tronco mangiandosi il suo cuore, mi sono spezzato la schiena camallando sacchi di terra pregiata, ghiaietto per il dreno più adatto, ho vegliato con lui nelle notti di gelo tardivo. E credo onestamente che se continuo a tenere quella casa di Spezia, è soprattutto per lui, che lì è nato.
So che non potrei disfarmene. Perché, a conti fatti, è oggi l’unica, vera concreta continuità dalla mia vita adulta:15 anni che viviamo assieme. Con questo mi ripaga, non del chilo di olive, ma per il fatto semplice e definitivo che è lì, che vive;la sua vita protegge le incertezze della mia come la mia protegge le sue. Accanto al suo esile tronco, sotto i suoi radi rami senz’ombra io trovo riparo come un re sotto una quercia millenaria. E so che visto da lontano, anche solo da un altro terrazzo, il mio ulivetto è un alberello patetico, quasi una caricatura;e altrettanto dicasi di me, di me accanto a lui. Ma questo non è di alcuna importanza:molte cose importanti della vita perdono il loro senso viste dal di fuori.
So che verrà un giorno che dovrò sradicare l’ulivetto dalla bagnarola. Per amor suo, per rispetto alla vita, sarà bene che trovi un poco di terra, vera, dove piantarlo. Perché cresca davvero, perché faccia il suo corso naturale e si espanda e diventi finalmente adulto. Forse se troverò un poco di terra, troverò vicino anche una casa dove, magari, far pure prosperare il sottoscritto, in modo che continui a crescere anche lui, e continui a potare il suo ulivo in una continuità così naturale da sembrare una favola. Una favola persino patetica, se vista da lontano.
Ho accanto a me, sulla scrivania, un po’ di rametti della potatura;la luce fredda del computer rende l’argento delle foglie quasi metallico, grezzi gioielli postmoderni. Ho portato i rametti nella casa di Genova per regalarli agli amici. Ecco, dirò loro, questo è il meglio che ho darvi di me:l’arte della potatura, un ulivo che vive e fruttifica in una bagnarola. Non è il suo posto, quello lo so, e viene su come può;ma è vivo e sano, vedete?
Del resto, chi tra noi, amici miei, è al suo posto?In quest’epoca chi può dire di avere a disposizione, per far crescere le proprie speranze, attese e amori, per far prosperare la stessa materia della vita, un sito migliore di una bagnarola?Non so davvero se potremmo fare qualcosa di più giusto per noi, per ciò che amiamo, per ciò che vogliamo, che curare come meglio possono le nostre mani, ciò che è riuscito ad attecchire nelle ristrettezze, nei corti orizzonti. E crescerà ancora, e noi con lui, in epoche più floride, in orizzonti più vasti, solo se riusciamo a portare sano e salvo di là ciò che qui è riuscito a vivere, ciò che qui abbiamo saputo far crescere. L’arte della potatura in tempo di guerra non fabbrica pace, lo so, ma rende giustizia alla vita, alla vita che è vita anche in tempo di guerra. E vi sembrerò patetico, amici, solo se mi state guardando da lontano, da molto lontano.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 20 gennaio 2003