Maurizio Maggiani: Il declino di Napoli e l’omertà del potere

Io c’ero la notte che Piazza Plebiscito si illuminò e tutta Napoli si accese nello splendore e nella meraviglia del meglio di se stessa appena ritrovato. Io c’ero l’inverno che assieme alle piazze e ai teatri si illuminarono gli sguardi dei napoletani, e pareva che quel loro rinascimento dovesse essere il rinascimento di tutto un Paese. C’ero, e nel ricordarlo è come se rivangassi in un passato remoto, in un’epoca leggendaria di cui ancora si conservano flebili tracce e contradditorie testimonianze; e non è stato più di quindici anni fa. Quello che è oggi Napoli non è tutto nelle immagini della Tv e nei reportage dei giornali – Napoli è anche più grande delle sue cronache, ma non è certo quello che sembrava così sicuro potesse continuare ad essere e diventare nei giorni di quella lontana epoca. Cosa è successo di così vasto e drammatico perché il tempo di un’epoca si esaurisse in una manciata di anni? Cosa è successo nelle cose, cosa nelle persone? Mi sgomenta guardare Bassolino parlare in Tv, e mi interrogo su come il potere, il vero, solido potere di cui ha goduto e gode possa averlo trasformato, come se il potere fosse una malattia degenerativa. Bassolino, il cui sguardo vivido mi scrutava allora appiccicato in ritratto sui registratori di cassa dei bar con sotto scritto ‘o Re, il Re del rinascimento, l’uomo che ha fatto l’ultima rivoluzione napoletana, oggi si espone come una mummia pietrificata di se stesso, capace di recitare luoghi comuni a manciate, a gragnuolate. Non diversamente gli altri uomini della politica, non diversamente i ministri e gli ex ministri, i deputati, il sindaco, che è lì, si sente dire, solo perché Bassolino ha voluto che lì fosse nonostante un quinquennio di sconfitte, chi ha responsabilità, e ne ha avute, responsabilità enormi per fare e disfare. Parlano di Napoli ognuno di loro nella sua inflessione con parole non diverse da quelle che usava il vecchio Lauro cinquant’anni or sono. O come ne parlerebbe ancora Maradona, o Ferlaino, o uno a caso dei presidenti del Napoli Calcio. Napoli deve tornare a sognare, dicono, senza battere ciglio, senza nemmeno una parola sul perché ha smesso di farlo. Napoli deve sconfiggere la malavita, senza una parola sul perché la malavita non è stata mai sconfitta. Napoli ha bisogno di più risorse, senza sognarsi di denunciare la fine che hanno fatto quelle già dilavate. Anche coloro di cui è sicura una certa intelligenza sciorinano frasi fatte, talmente fatte da risultare persino nel loro odore disfatte. Si indignano con quel genere di indignazione che fa venire in mente lo stile retorico di Mario Merola, anche se hanno imparato a recitare a Milano o Roma. Certo che Napoli non è una fogna, ma sembra evidente che c’è chi non sarebbe dispiaciuto di pascersi in una città trasformata in un immenso immondezzaio materiale e morale. Le loro parole sono così poco consistenti di realtà da farmi sospettare che celino l’imbarazzo di chi conosce la verità e non può permettersi il lusso di manifestarla. Cosa è accaduto in questi quindici anni? Un paio di anni fa ho avuto una conversazione interessante con un giovane tassista in realtà un laureato in giurisprudenza che, fortunato, aveva trovato da fare il tassista lungo la strada che da Castel dell’Ovo porta a Capodichino. Diceva il tassista che Napoli si era desertificata, essiccata di tutto il movimento di individui, gruppi, opinioni, volontà libere e spontanee generosità, intelligenze e sensibilità che erano state convocate e mobilitate per quella notte di quindici anni or sono, per costruire quello splendore, per fare materia di quelle speranze, per mantenerle in vita e farle crescere. A un certo punto la città, il suo tessuto e la sua anima, ne è stata svuotata. Quando, perché? Quando il Rinascimento è diventato potere. Quando si sono voluti trasformare in uomini di potere gli uomini e le donne della volontà. Chi ha accettato si è fatto oligarchia, la nuova oligarchia nata dal Rinascimento. Chi ha accettato, si è dotato di un ufficio, di un bilancio e del potere di gestire l’uno e l’altro per accrescere il suo potere. Per cooptare altri uomini da usare per creare nuovi territori di potere. Chi non ha accettato, e sono stati i più, si è posto oggettivamente contro il potere, indesiderabile ai suoi occhi, messo in grado di non agire per non nuocergli. E la città svuotata dalle buone volontà si è riempita di cattive intenzioni, e lo spazio lasciato libero di positive intenzioni è stato colmato di immondizia. Credo che il discorso del tassista sia stato uno dei pochissimi ragionevoli e di verità che io abbia ascoltato. E il laureato in giurisprudenza faceva il tassista perché era stato uno dei volenterosi che non ha accettato di essere cooptato “ad altro e più importante incarico”. C’è una cosa che mi viene in mente proprio adesso. Vi ricordate i giovani di Locri? Quei ragazzi coraggiosi che hanno sfilato l’anno scorso dopo l’assassinio di Fortugno sfidando la ‘ndrangheta con gli striscioni “adesso ammazzateci tutti”? Un esempio limpido, una bella notizia per tutto il Paese. Ecco, qualche tempo fa, a pochi mesi dal corteo, ho ascoltato una delle ragazze di Locri invitata a parlare alla Camera dei deputati. Ho ascoltato attentamente il suo discorso: sembrava quello di un deputato già con un paio di legislature alle spalle. Probabilmente la ragazza neppure se n’è accorta, ma l’avevano già cooptata. Una carriera di politico davanti a sé, un piccolo ma definitivo posto vuoto alle sue spalle.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 5 novembre 2006