Maurizio Maggiani: I veleni della Spezia

Ieri a Spezia sono entrato per la prima volta in un museo. È una cosa impegnativa ed emozionante farlo: non è come andare al cinema, è assai di più che entrare in un ristorante: un museo è sempre un luogo di viaggi misteriosi carichi di straordinarie evenienze e pericolosi inciampi. Si chiama CAMEC questo museo, centro d’arte moderna e contemporanea, e incontrarlo è stata una bella notizia. Perché l’ho trovato bello; un gran bel museo, bello da vedersi e da starci, con dentro delle belle cose da guardare e cercare di capire. Non è una roba da poco: ci sono mille musei in mille città di provincia, ognuno con la sua piccola gloria, ma alla fine sono pochi quelli che ti vengono con sincera amicizia e ti danno quello che hanno senza supponenza, e senza cercare di annegarti nella loro montagna di patacche. E’ un gran bene che ci sia un museo così, è un gran bene che la comunità abbia largheggiato e fatto sacrifici per concederselo.
La cosa che appare incredibile a chi non conosce la città è che questo presidio di bellezza sia collocato al centro di una landa di desolazione. La quale desolazione non suppura da un sito periferico di aree industriale dimesse, ma dal cuore stesso della città, essendo appunto il museo nel centro cittadino. Lascia da parte le due strade che con grande fatica sono state riqualificate negli ultimi anni e ti inoltri nel set di un film di un Bergman degli anni ’50 consumato dall’ambizione di descrivere una sua metafisica della sciatteria esistenziale. Attraversi strade buie e disadorne, che ti appaiono abbandonate dall’idea stessa del decoro, come se l’abbandono fosse uno stato naturale nelle intenzioni di chi ha edificato la città e la sta abitando.
La sporcizia, la cattiva illuminazione, il miserando squallore di magazzini e negozi, il selvaggio prosperare della gambarossa e della gramigna negli angoli dei marciapiedi in sfacelo, ti consegnano a uno stato dell’animo più che a uno stato del civismo. Se non conosci la città ti chiedi quale folle ardore mistico abbia spinto i suoi cittadini a rinunciare ad ogni cosa terrena per promuovere l’esaltazione dello spirito: in questi ultimi dieci anni la città si è data cinque nuovi musei, forse non tutti simpatici come CAMEC, ma pur sempre di elevate intenzioni.
Ma se conosci la città ti chiedi se non abbia infine deciso di sopprimere se stessa, lentamente farsi finire, schiacciata da un senso di colpa collettivo e universale, dalla coscienza di una impossibile redenzione. Dirà pur qualcosa sulla sua anima il fatto che Spezia è la città con il più alto consumo di antidepressivi della nazione.
Di cosa e su cosa sta vivendo questa città, da quale nerbo trae le ragioni della sua esistenza e delle attese di prosperità? Dall’indicibile. Da ciò che non è detto, non va detto, non è bene dire. Nulla negli ultimi decenni appare alla luce, nulla è limpido, tutto trascorre nell’acqua scura e insondabile dei canali che la attraversano.
Forse Spezia è una città avvelenata nell’anima perché lo è stata nel corpo. È vissuta e vive di veleno, ne muore.
Il porto dei veleni, la centrale elettrica dei veleni, le discariche dei veleni. Sono state fatte leggi dello Stato appositamente per cercare i veleni i questa città. Il suo territorio è forse uno dei più indagati d’Europa, perché uno dei più appestati. Da decenni, e ancora non è chiaro, non si sa, non si dice, quanto, perché, chi. Una città che ha deciso di non sapere, una città che si mortifica nel suo stesso silenzio.
Una città che da vent’anni ha un tasso eccezionale di casi di cancro al polmone e alla pleure e non sa bene il perché. È la stessa città che da una settimana sa che, per pura coincidenza, nello spazio di tre isolati ha quattro bambini ammalati di leucemia. E la stessa città che ancora non sa cosa ci sia stato davvero, e ancora c’è, nella favolosa discarica di Pitelli, nota al mondo intero. La stessa città che ha pensato bene di provare ad affidare a chi ha gestito quella discarica, ovviamente indagato, l’incarico miliardario di bonificarla. È la città dal cui porto sono salpate un paio di dozzine di navi sorelle della velenosissima Jolly Rosso, tutte ora seppellite negli abissi mediterranei; e ancora non sa cosa abbiano lasciato qui, prima di salpare. È la città delle cave di amianto e delle discariche di amianto, la città dove il giudice incaricato di indagare è ora indagato perché sospettato di non aver indagato affatto. La città dove il sospetto che nessuno tra chi dovrebbe cercare di sapere e far sapere ha una qualche intenzione di assolvere al suo sacro mandato, non sarà mai altro che una quasi certezza. Una città assolta in eterno per insufficienza di prove, in eterno per questo condannata. Una città con la classe politica più tranquilla del mondo, predestinata da generazioni a sopravvivere a qualunque contingenza, scolpita nel marmo di un destino traslato da padre spirituale a figlio elettivo. Un destino che nemmeno nella Corea di Kim Il Sung è stato così placidamente duraturo: segretario del partito, sindaco, parlamentare.Perché questo accada occorre silenzio e accordo, accordo e silenzio d’acciaio: uno per tutti, tutti per uno.
Se questa è la città, se è possibile che abbia potuto vendersi e continuare a farlo al minor offerente, al prezzo pattuito per il veleno, allora si capisce come edifichi il suo bel museo in un deserto di angoscia e tristezza.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 10 dicembre 2004