Maurizio Maggiani: I ricchi piangono poco (e io non me la rido)
A differenza di molta brava e degna gente, io non ho nulla in contrario a far sì che i ricchi piangano; che piangano a dirotto di tanto in tanto, e una tantum nella vita pure si disperino. Non ho pregiudizi ideologici che mi ispirino, ma solide ragioni biografiche; e la biografia, la vita, conta, e i suoi conti se non liquidati rimangono aperti per sempre, finché la vita duri. C’è dunque un antefatto nella mia biografia, piuttosto patetico, tinteggiato di ombreggiature dickensiane.
Mi sono diplomato maestro di scuola grazie al fatto che mio padre raddoppiava la giornata da operaio e mia madre passava le notti a rifinire a puntino i capi di una maglieria. Avrei potuto considerarmi pago di essere il primo membro della mia famiglia ad aver potuto studiare, e con me paga poteva ritenersi la famiglia intera. Ma l’ambizione non ha limiti, e desideravo ardentemente potermi iscrivere all’università, frequentare gli studi altissimi, diventare un pozzo di scienza e conoscenza; per la verità mio padre lo desiderava ancor più di me, lui che era roso dalla coscienza della necessità del sapere per emanciparsi da ogni genere di servitù. C’era un solo modo perché questa smodata ambizione avesse una qualche probabilità di realizzarsi: ricevere un contributo dallo Stato, quello che al tempo si chiamava presalario. Con quei soldi avrei potuto vivere in una città universitaria e far quadrare i conti con qualche supplenza e ripetizione. Mio padre fece domanda allegando la sua limpida “Vanoni” dell’anno 1969, che gli attribuiva un reddito mensile di lire 69.500. Con quel reddito arrivai primo degli esclusi dal presalario. Ultimo degli aventi diritto fu il figlio di uno dei più ricchi commercianti della città, ramo calzaturiero, che aveva dichiarato un reddito inferiore. Quando andammo assieme a vedere l’elenco, mio padre pianse, pianse di rabbia e di delusione. Io no, io mi tenni la rabbia in corpo; io giurai vendetta e me ne andai a lavorare. Parte delle trattenute dal mio salario sono servite per quattro anni a mantenere agli studi un ricco figlio di commercianti che non è mai diventato uno scienziato, un letterato, niente di niente, se non, a sua volta, un commerciante ancora più ricco. Ma non manco di godermi la mia vendetta ogni volta che sbircio dalle vetrine del suo lussuoso negozio un uomo che, infinitamente più danaroso di me, ha una vita infinitamente meno ricca della mia, invecchiato dietro un registratore di cassa a escogitare sempre nuovi trucchi per frodare il fisco. Non secondario per la gioia dei miei occhi, è constatare come sia invecchiato male, gonfio di colesterolo e ritenzione idrica.
Questo è vero odio di classe, e ciò che manca a colmarlo è poter vedere quell’uomo piangere di rabbia come mio padre, come mio padre piangere per la coscienza di un torto fiscale subito. La legge finanziaria per l’anno 2007 mi darà soddisfazione, così come pavoneggia una ormai famosa pubblicità politica? Io sono sicuro di no. Ho la dolente certezza che non vedrò ululare lo scarpaio che tengo da trenta e più anni sott’occhio. E questo perché ho la rabbiosa certezza che in questo Paese non si troverà mai il modo di far pagare il giusto e se non il giusto, il pari ovverosia: tanto io, tanto lui a chi vive sulle spalle fiscali mie e dei miei colleghi contribuenti. È scientifico: nessun esercito, forza di polizia, studio di settore, centrale di spionaggio potrà mai stabilire un regime di equità e di legalità, perché non potrà mai imporsi sulla mentalità fraudolenta quando è di massa e priva di senso di colpa. Nessun capo di governo, se non qualcuno che assomigli a Pol Pot, potrà mai rendermi giustizia. Né potrà farlo il Dio dei cristiani, visto che la sua Chiesa da un bel pezzo ha smesso di scomunicare i fraudolenti e gli strozzini, visto che alla lettura di: “date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio” non segue l’imposizione di darlo davvero a Cesare quel che è suo. Quello in cui posso ragionevolmente sperare è di vedere singhiozzare, al massimo frignare un poco, il mio scarpaio prediletto, perché è riuscito a frodare meno del previsto, questo se l’attuale governo mantiene ciò che ha promesso; e questa è tutto meno che una certezza. Ora come ora pagherò io, come sempre e più delle altre volte. Ma non piango e non singhiozzo.
Che ci crediate o no, io non sono dispiaciuto in assoluto di pagare e di pagare tanto; anche se so che parte di ciò che pago servirà ad esentare dal ticket sanitario un tassista di Roma che dichiara 11.000 euro all’anno e ne incassa almeno centomila e questa cifra me l’ha fornita un amico tassista, non un dirigente della sinistra radicale. Perché sono disposto a pagare? Perché, vedete, a me i soldi non servono. Non serve il cash, non servono le tascate di bigliettoni. A me servono i servizi, quelli che non ho e che invece mi servono, e che mi pago con i soldi che dilapido per procurarmeli. Spendo per una risonanza magnetica perché se aspetto i comodi della pubblica sanità potrei morire di qualunque cosa nel frattempo; spendo per la baby sitter perché la scuola pubblica non contempla il tempo pieno; spendo per il taxi perché i mezzi pubblici non mi garantiscono una decente mobilità; spendo per l’autoclave perché l’azienda dell’acqua non mi garantisce un’erogazione decente. Spendo per ciò che in qualunque Paese che usa bene la sua ricchezza mi è garantito come contribuente; e in quei Paesi ciò che fornisce lo Stato è sempre di qualità migliore di ciò che posso procurarmi io stesso da altri fornitori. Non sono avido, voglio solo ciò che mi serve per vivere con dignità e fiducia: e questa non è una mia specifica temperanza, ma è la temperanza del ceto medio ovunque nel mondo occidentale. Il ceto medio non è contraddistinto dal reddito, ma dall’uso che ne fa, dalle attese che gli conformano lo stile di vita. Attese che forse non sono comuni a tutto il ceto politico. Apprestandosi a discutere la legge finanziaria, i nostri deputati, i più pagati dell’Universo, si sono messi a starnazzare per l’aumento del loro ristorante riservato e del servizio di barberia. Altrove basterebbe questo modesto, rivoltante episodio, per certificare l’impossibilità di un’autoriforma della classe politica di un Paese.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 8 ottobre 2006