Maurizio Maggiani: I nipotini di Togliatti tra gli stand di Genova

A giorni giù alla Fiera di Genova inaugureranno la Festa nazionale dell’Unità. Sono affezionato ai festival dell’Unità. Fa parte delle effemeridi annuali, come la mietitura del grano, come il santo patrono. A dire il vero ne ho saltati un po’, gli ultimi, come ho saltato le ultime edizioni delle fiere di San Giuseppe e di Sant’Agata, altri caposaldi delle mie ricorrenze, e per le stesse ragioni: non trovo più quello che vado cercando. O forse c’è ancora, ma si fa troppa fatica a trovarlo, seppellito nei mutamenti. Ma in gioventù non me ne sono perso uno di festival. Ci ho sentito della gran musica, ai tempi belli, e anche del gran teatro. Ci ho imparato qualcosa di politica.
Non ai comizi, che credo di essermeli persi tutti, ma guardando, ascoltando, facendo la coda al ristorante. Mi hanno dato la percezione di cosa sia una riunione di popolo, di cosa fosse un popolo. Il popolo della sinistra che prende le meritate ferie e va in gita in un Paese che ha costruito per sé in una landa perduta in qualche periferia, e si dà all’onesto piacere.
Ai tempi belli, quando i prezzi erano politici – perché tutto era politica, tutto a immagine del mondo a venire – e il cibo era cucinato con la stessa sollecitudine e coscienza con cui il cuoco avrebbe poi preparato il suo intervento al congresso della sezione. Ho imparato cos’è l’attaccamento a un’idea, quanta innocenza ci fosse in quell’attaccamento, come fosse “cosa buona e giusta”. Farsi di una speranza una passione per tutta la vita. Che prezzo ha oggi sul mercato della politica la tenacia di una passione? Gente che ha lavorato trenta, quarant’anni per tutte le sue sacrosante ferie, a gratis, per costruire anno dopo anno il socialismo in uno stand gastronomico, in un palco comiziale. Perché la società futura la si costruisce con le mani, con l’esempio e con il pensiero, questo mi sentivo dire ai tempi belli.
Non sono mai stato comunista, se non altro perché cosciente di non avere nemmeno il carattere giusto per esserlo, ma ho voluto bene a quella gente incontrata ai festival. E gliene voglio ancora, quando la incontro, quando si fa visibile oltre la cortina di un fare politica che non la contempla.
Ho visto la mostra fotografica che sarà esposta a Genova. È un lunghissimo serpentone di ritratti. Sono le immagini scattate alla gente da Giorgio Bergami nel corso dei tre precedenti Festival nazionali a Genova. 1955, 1978, 1989. Segretari Togliatti, Berlinguer, Occhetto. Tre epoche.
Me la sono guardata con calma quella mostra infinita. Ho cercato di studiare un po’ di storia guardando quel popolo, quei popoli forse, e ho cercato di vedere lì l’oggi, il domani. Le facce, i vestiti, il modo di camminare, di guardarsi attorno. I volti dei segretari, le loro espressioni davanti alla loro gente, le espressioni della gente davanti ai suoi capi. Guardando con attenzione si vede tutto, si capisce tutto. Della sinistra, di questo Paese, della storia dell’una e dell’altro. Guardatevela anche voi, siate di destra, siate di sinistra.
Se siete di destra, è bene che ve la guardiate perché, qualunque siano le vostre più ambiziose speranze, quel popolo è esistito per davvero e non c’è storia che possa annientarlo. Ciò che quella gente ha fatto e pensato continua e continuerà ad agire, le cose buone come le grame. Se siete di sinistra, lì troverete modo di riflettere e comparare. Guardate voi stessi, guardate i visitatori di oggi e chiedetevi cosa e come è successo in cinquantanni di voi, di loro. Guardate i vostri abiti, le vostre mani, il vostro cuore e chiedetevi se siete migliori, peggiori, semplicemente diversi. Specchiatevi in quelle immagini e domandatevi dove vi porterà essere come oggi siete, se ci arriverete dove volete andare, se ne varrà la pena. Guardate il segretario Fassino al comizio finale e confrontatelo con gli altri segretari, confrontate gli altri tra loro. E chiedete anche a lui, quello che vi siete appena chiesti. Ma con lui fatelo a viva voce.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 22 agosto 2004