Maurizio Maggiani: Gli uomini che non esistono
Otto e dieci, regionale La Spezia – Savona quarto binario, nel cuore di questa estate di caldo faticoso come un lavoro. Già si fatica a respirare sull’antico convoglio a tariffa regionale week end: è presto, ma il treno è pieno. Pieno di popolo. C’è il popolo che andrà a fare la sua giornata di lavoro nelle Cinque Terre; sguatteri, camerieri, cuochi, ripulitori nelle trattorie, negli hotel, nelle pensioni, nelle camere semi ammobiliate, negli agriturismo, nelle cantine bed and breakfast, in regola e fuori regola ma tutte strapiene di turisti. Li riconosci; è un popolo di giovani, extracomunitari in maggioranza ma anche figli del popolo depresso della città più depressa della riviera.
Sono ancora assonnati perché molti di loro hanno finito di lavorare tardi, tornati a casa con l’ultimo locale della notte. Chiacchierano fitto tra loro, nelle loro lingue e nei loro gerghi; parlano d’amore, di ingiustizie, di chiacchiere qualunque. Nessuno di loro ha un giornale di qualche tipo tra le mani; leggono e rileggono sul display del loro telefonino l’ultimo messaggio della notte, o il primo del giorno, si concentrano sulla risposta, correggono quello che hanno appena scritto, rileggono ancora una volta.
E c’è il popolo del mare. Famiglie, tutte famiglie a quest’ora. Lo conosco da quando mi ricordo, da quando, negli anni Cinquanta, i sedili dello stesso treno alla stessa ora erano di legno anziché di acrilico.
Popolo di madri, zie, nonne, figli e nipoti. Le stesse facce, gli stessi gesti, ancora secchielli e formine, salvagente, borse frigo e ombrelloni racchiusi in custodie di tela. Lo stesso sventagliare di vecchie riviste femminili “dio che caldo oggi”, strilli e berciamenti “mamma, ma lui non mi vuol dare la paletta”, l’inconfondibile colpo secco e improvviso di una patta nel culo. “tè, così piangi per qualcosa”.
Il proletariato alla conquista del suo mare. Si mette in viaggio di buon mattino verso i cinquanta centimetri quadrati che statisticamente gli spettano di spiaggia libera tra Monterosso e Bonassola. Se vorrà stendere tutti gli asciugamani che ha nelle borse e innalzare la bandiera vittoriosa dell’ombrellone aperto, dovrà correre e spintonare anche un po’. E’ un popolo che non può permettersi nulla di più di una bibita a testa per i bambini, o un cono gelato, finita la merenda che si è portato da casa. E’ un popolo che rinuncia a qualcosa per poter spendere 6 euro a testa, un popolo che non può permettersi di godere del suo mare per un mese di fila.
So tutto di questo popolo, sono nato e cresciuto con lui. C’è una famiglia seduta davanti a me. Padre, madre e tre bambini. Li guardo, li ascolto. Gente bella, giovane, semplice e viva. Ci vuole un bel coraggio a fare tre figli, penso, ma l’uomo se li gode i suoi figli con un’aria di soddisfatta paternità che esclude le angosce. La moglie è dolce, attenta, e, quando riesce a sfuggire dalla stretta rete delle richieste filiali, guarda il suo uomo con un abbandono che mi fa invidia. I bambini canticchiano l’ultima poesia imparata a scuola, si azzuffano, fanno pace.
E il treno va, galleria dopo galleria, tra sprazzi improvvisi di mare azzurro come in un sogno. L’uomo ha un giornale, oggi si è permesso questo lusso, e, sfogliandolo, commenta le notizie del giorno con un signore seduto accanto. E si sbrindella l’incanto. La sua percezione di ciò che accade nel mondo, nel suo paese, nella sua città è triviale, cinica, semplicistica. Quell’uomo buono, quel proletario teneramente padre è un analfabeta della realtà politica e civile. Non riconosco nelle sue parole niente di quello che ho ascoltato nel corso degli anni, delle stagioni al mare con il treno delle otto, dalle centinaia di genitori come lui, operai come lui, che sono venuti prima di lui, padri suoi e miei. La dignità di quei discorsi, qualunque fosse l’opinione di chi li esprimeva, la semplice coerenza, lo sfottò duro, l’ironia consapevole. Le parole di quell’uomo sono il calco di quanto di peggio si sente alla televisione. E in parlamento, se è per questo. E so che su questo treno può intendersi alla perfezione con molti altri, buoni e veri come lui. Ma veri e buoni solo nel circoscritto universo della loro realtà, che è fatta solo di se stessi. Fuori, al di là delle sudicie panche del treno regionale, al di là del lindo tinello della loro casa, non esistono, e nullaesiste di cui abbiano una consapevolezza che non sia squallida caricatura della realtà.
Che è ciò che si è allestito per loro, perché ci si potessero istupidire; cessare di essere uomini e donne e diventare clienti del grande pacco con sorpresa in offerta speciale. E mi chiedo se sia irreparabile questa infermità della coscienza. Se basti cambiare governo e direzione della Rai per riparare il danno. E credo di no. E credo che la più cogente responsabilità della sinistra sia stata quella di essersi scordata che parte un treno per il mare alle otto e dieci di mattina, che quel treno è carico di persone, di coscienze, e non della marginalità ininfluente che ha creduto di governare parlando con il tono di sussiegoso disprezzo con cui certi preti della mia infanzia parlavano all’ignoranza peccaminosa dei fedeli. Preti che non esistono più ormai.
“Tratto da: “Il Secolo XIX”, 13 luglio 2003″