Maurizio Maggiani: Forza ragazze di Genova grintose nonne del Corsaro Nero
Assai più dei loro uomini, le donne di Genova hanno fatto parlare di sé nel corso dei secoli. Hanno fatto innamorare una marea di forestieri e ne hanno fatto disperare in egual misura. Montesquieu si è spinto a giurare che fossero le più belle e le più fiere d’Europa. Io non conoscono così a fondo l’Europa senza aderire alla sua convinzione riservandomi ulteriori indagini, ma che siano belle e fiere ne sono più che certo. E bizzarrie, nel modo misterioso che le fa somigliare a certi cavalli arabi mezzo bradi e mezzo accondiscendenti alla cavezza, nel cui sguardo pemsdoso e lontano puoi cogliere soltanto un’ombra di ciò che hanno in mente al riguardo del mondo, dell’universo, e al tuo mondo.
Già, lo sguardo delle donne di Genova. Certe limpidezze diamantine negli occhi di una ragazza ferma a un semaforo di via Gramsci con la sua Vespa, che vorresti provarti a nuotarci dentro quell’oceano per vedere quanto è vasta la sua dolcezza, quanto profonde le sue correnti. Certe cristalline feroci fermezze negli occhi di una indomita vedova – che morirà tra molti secoli ormai antica ma non ancora vecchia – fissi come i moschetti di un plotone di esecuzione sui cartellini dei prezzi di un besagnino di Castelletto; la guardi di sottecchi e non vorresti essere nei panni del promotore finanziario che ha osato provarci a tirarle il pacco. Come puoi non amarle le donne di Genova? E infatti non so sottrarmi al loro fascino, anche se quel po’ di scaltrezza contadina che mi rimane nel sangue, mi porta ad amarle da una certa distanza. Cionondimeno continuo incessantemente ad invaghirmene, e l’ho fatto due volte solo in quest’ultima settimana.
Sì. Sarò anche uomo di labili scrupoli morali, ma appena ho saputo delle due distinte signore che hanno furoreggiato criminaleggiando per la città, il mio primo commento, non udito da voce umana, è stato: forza ragazze! E mi è bastato leggere i particolari per andare in subitaneo deliquio. Perché non le conosco, ma me le vedo come se fossero qui davanti a me le nonne genovesi del Corsaro Nero. Che stile, che tempra, che carattere! Le Primule d’Argento. Rapinatrici per estro, amanti del gesto espressivo, intollerante della banalità della decadenza. Bisogno di eozioni forti; ma questa non è un’attenuante che invocano, questo è un grido di battaglia, una sfifìda lanciata alle noiose certezze del loro status!
E se devo esprimere una preferenza, non posso che impalmare la signora della banca. Già, sgraffignare gioielli per un paio di cento milioni al proprio gioielliere di fiducia lo trovo un delinquere di raffinata eleganza – non scevro da una sottile tinteggiatura sociale: i ricchi non è bene che diventino più ricchi a scapito degli altri ricchi – ma sollecitare l’attenzione del sistema bancario alle proprie necessità con un coltellaccio tra le mani è un gesto che valica il campo estetico per collocarsi nell’universalità dell’esperienza onirica. Chi, tra milioni di sudditi dell’Associazione Bancaria Italiana, vessati dalla supponenza di un cuore duro e freddo come carbone, non ha mai sognato di allungare oltre il metaforico fossato dello sportello uno qualunque degli oggetti persuasivi che sono comunemente classificati nel genere delle armi proprie e improprie? Ma, a differenza di un comune mortale maschio, il coltello non era l’arma principale della micidiale signora. Sono certo che fosse il suo sguardo, quel certo sguardo delle donne di Genova. Che avrebbe convinto a mollare il malloppo un cassiere della city, un brooker di Wall Street; e se non è servito nel caso in questione, immagino che sia perché a quel tale cassiere genovese abbia potuto far venire in mente lo sguardo della propria moglie in certi momenti di tensione che in qualche modo deve aver imparato a superare in nome della propria pelle. Deve aver avuto familiarità con quello sguardo, e la familiarità, si sa, è un potente deterrente della minaccia.
Mi chiedo se le due Primule d’Argento abbiano dei nipoti. Spero di no. I nipoti, in certi ambienti socio culturali che parrebbero affini al loro, potrebbero risultare deleteri. Potrebbero convincere le corsare a smaltire la loro legittima necessità di forti pulsioni emotive con l’uso, ai nipotini così familiare, di sostanze chimiche derivati dalla pianta coca, ad esempio. Questo sì sarebbe un colpo mortale al lusinghiero mito delle donne di Genova. Una decadenza che la città non merita.
Una parola infine agli uomini di Genova. Potremo mai inventarci qualcosa di abbastanza convincente per poter ambire noi stessi ad essere la fonte delle forti emozioni che le nostre donne giustamente rivendicano? O dovremo assistere, colpevoli, da qui a non molto – l’esempio è potente maestro – a una città in preda alla delinquenza femminile?
Tratto da “Il Secolo XIX”, 6 novembre 2005