Maurizio Maggiani: Farsi una casa, lezione di vita
Un tale, il signor Giacomo, mi si è presentato un giorno dell’altra settimana per raccontarmi una storia. Una favola, ha precisato, una favola vera. E’ un po’ che non mi metto a sentire favole, ed è anche un po’ che mi chiedo se valga la pena di ascoltare da adulti, soprattutto quando ti chiedono di aderire ala loro verità. Ma come si fa a dir di no a chi ti chiede con timida dolcezza di stare un attimo ad ascoltarlo? Così ho saputo la storia favolosa di Dolfo e Pina. E alla fine me ne sono restato interdetto e deluso per un po’.
Beh. Che storia mai era quella, dov’era tutta la favola che mi era stata promessa? Che avevano fatto Dolfo e Pina che potesse sembrarmi favoloso e memorabile? Nulla, visto con lo sguardo che si usa quotidianamente per guardarci attorno in cerca di notizie e fatti e segni. Altro non hanno fatto che costruirsi una casa. Volevano continuare a vivere nel posto dove erano nati e cresciuti. A Pieve Alta, un posto magnifico a dire il vero, dove io e chissà quanti non disdegneremmo affatto di vivere, un posto dove è umanamente impossibile trovare una casa a prezzi umanamente sostenibili. Ma evidentemente il loro desiderio era sostenuto da una tenacia particolare, e così hanno trovato un immondo rustico e su quelle briciole hanno eretto la loro casa. Se la sono fatta, la casa, semplicemente. Ci hanno messo un po’ d’anni, perché “farsi una casa” in una certa lingua vuol proprio dire farla. Fare ogni cosa di ciò che è necessario. Dal lavoro dello scalpellino, a quello del muratore, dell’architetto, del fabbro ferraio, del pavimentista, dello spaccapietre. Visto che Dolfo e Pina, già che c’erano, hanno voluto farsi una casa alla vecchia maniera, dove non c’è profilato di alluminio ma ferro battuto, non cemento compensato con polistirolo, ma pietra e malta.
Il signor Giacomo ha concluso la sua favola così poco favolosa affermando che quella casa, ora che finalmente c’è, non è solo bellezza per chi l’ha costruita e la abita, ma per tutti quelli che passano a Pieve.
Un lavoro ben fatto è ricchezza di tutti, diceva mio prozio Mattutino, anarchico e muratore, libertario e fabbro fine. Lui, nel 1930, la casa se l’era fatta da solo, si era fatto anche la dentiera; la casa in mattoni, la dentiera in acciaio. E la casa dove io sono nato fu costruita da mio nonno con l’unico ausilio di mio prozio Mattutino. E nel paese dove sono cresciuto ogni contadino si è fatto la sua casa, e si vede bene ancora adesso, quadrati sghembi come sono, con improbabili accessi – qualcuno nei suoi disegni a mente si era dimenticato il posto delle scale – con cucine immense e umidi salotti abbandonati.
Visto dal 1950 in Val di Magra, costruirsi una casa non è una favola e nemmeno una storia che val la pena di raccontare: è solo un pezzo di vita quotidiana e dura. Visto dal 2005? Lì per là puoi non farci caso, restartene con un boh. Ma pensaci Maggiani. Pensaci. Farsi una casa, fare qualcosa che occupi nel fisico, nella mente, nell’anima. Cominciando con tutti i permessi da chiedere e ottenere. Continuando con tutto ciò che occorre fare giorno per giorno per qualcosa che, se saprai correggere i tuoi errori, vedrai non il prossimo anno né l’atro ancora, ma fra cinque anni, dieci lunghissimi anni in cui molte cose cambieranno intorno e dentro di te. Perché alla fine ciò per cui ti sei impegnato accada, perché ciò che alla fine vedrai e ognuno vedrà potrà essere considerato qualcosa di ben fatto, di fatto a regola d’arte, occorrono doti che non compaiono nel prontuario di questa contemporaneità. Occorre pazienza, dedizione, fedeltà, costanza, fantasia, fisicità, accettazione della fatica duratura, rifiuto del disinganno.
Hai in cuor tuo la certezza di aver messo tutte queste qualità a disposizione di una qualità delle cose che stai facendo? Per fare una casa, par fare un amore, per fare anche solo un libro? Chi tra i lettori si sente in coscienza di accollarsi la banale ma ciclopica impresa che Dolfo e Pina hanno portato a termine? Io so che non saprei farlo, che non saprei più farlo; e ora, che sulla non favola e non storia del signor Giacomo ci ho penato su, sento che questa è una mia menomazione. Sento che non è bene, né per me, Né per gli altri, che io non ne sia capace, qualunque altra cosa sappia fare. E che giorno per giorno mi applico a realizzare ben sapendo che ne vedrò i risultati tra poco, già sbarluccicanti nell’orizzonte visibile.
Avere mani forti e sguardo lungo, pazienza tenace e cuore fedele basterebbe a cambiare il mondo. Da qualunque punto di vista si guardi al mondo.
“Tratto da “IL Secolo XIX” 23 ottobre 2005″