Maurizio Maggiani: Dino

Dunque l’altro giorno è morto Dino. I lettori mi perdoneranno se li intrattengo su questa non notizia, in effetti Dino non era nessuno. Era un operaio in pensione, ed era mio padre; se c’è stata una notizia, ha riguardato solo chi è rimasto della sua famiglia: suo figlio, sua figlia, suo nipote e la Giorgia, la signora romena che da tempo ormai chiamava con il nome della sua defunta moglie, la persona che gli ha tenuto stretta la mano per tutta la sua ultima notte. A dire il vero è stata una notizia, una brutta notizia, anche per la signora Margherita, che proprio poco tempo fa mi ha fermato chiedendomi di lui e mi ha salutato scuotendo la testa e ricordandomi: era un signor operaio suo padre. Sì, Dino, misteriosamente noto come Dinetto nonostante non avesse alcunché di minuscolo, era tutto lì: un padre di famiglia e un operaio. Dunque, proprio nessuno. È opinione comune che la classe operaia fosse defunta già vent’anni prima della sua dipartita, e perciò era un relitto della storia, un residuo del Novecento. Nulla di tutto ciò che gli premeva ha mai potuto toccare con mano: non la pace, non la prosperità, non la giustizia. Se ne è andato senza poter avere la soddisfazione di vedere almeno negli occhi di suo figlio la speranza che lui ha sempre nutrito, quella che lo portava tutti i Primo Maggio a sfilare assieme ai suo colleghi dell’ex classe operaia tenendo per mano i suoi bambini e la prima domenica dello steso mese a pellegrinare con loro, carico della cesta delle fave e salame, fino alla Madonna dell’Olmo. Da tempo ormai nemmeno la Madonna ha più i suoi olmi, uccisi da qualche malattia, ma questo lui non lo sa: è tanto che non può più salire fin lassù. Era un libertario e un socialista, e questo lo rende più nessuno che mai. Suo figlio, il sottoscritto, ha girato la città intera per cercare un bel mazzo di garofani rossi sentendosi dire: sa, non li vuole più nessuno. Alla fine sono stati ordinati da fuori, neanche fossero ostriche; erano ancora in boccio, mentre avrebbero dovuto essere belli aperti e sgargianti. Il garofano era il suo fiore: il Primo Maggio Dinetto portava un garofano rosso all’occhiello della giacca, che per tempo immemorabile è stata quella del vestito del suo matrimonio, l’unica. Ha un garofano all’occhiello anche nella fotografia scattata mentre esce di chiesa con sua moglie, appena sposato; la fotografia è piccola e in bianco e nero, ma non ci sono dubbi che quel garofano fosse rosso, visto che mia madre glielo ha rinfacciato per decenni come una -quasi- imperdonabile bravata. L’unica della sua vita, per quel che ci ricordiamo noi superstiti. Era talmente nessuno, Dino, che quando è morto non ha lasciato praticamente alcun effetto personale. Nel suo comodino, chiuso da mesi e mesi, c’era un orologio Citizen con la pila scarica, un portafogli vuoto tranne che per una carta di identità scaduta, e un quaderno; un vecchio quaderno di quelli con dietro stampate le tabelline dove qualche anno fa aveva scritto in bella le sue poesie. Dino era un operaio che leggeva libri e inventava poesie. Non tante a dire il vero: solo una dozzina, e la prima è stata scritta quando era a far la guerra in Africa e l’ultima quando è nato suo nipote. Prima di scriverle in quel quaderno le aveva tenute a mente, per tutta la vita. Aveva una vista acuta e una gran memoria, ma negli ultimi tempi aveva perso l’una e l’altra. L’ultima volta che abbiamo parlato, ha creduto di riconoscere in me il suo amico di infanzia Domenico, e gli ha fatto un gran piacere ricevere la sua visita dopo anni di silenzio. Per fortuna so tutto di Domenico e così abbiamo conversato di quando eravamo bambini e poi giovani, di quello che è successo in questi ultimi anni di vecchiaia. Mi ha chiesto di mio figlio Doriano e io gli ho chiesto del suo, Maurizio. Beh, ha fatto con la mano l’inequivocabile gesto della mangheba, del trafficare, e ha risposto dubbioso: mah, mi pare che sia nella politica. Tra i tanti dispiaceri che un figlio può infliggere al padre, questo per Dino deve essere il più pesante. Non serve a nulla il dato puramente oggettivo che vuole il sottoscritto del tutto incolpevole, resta il fatto che Dino se n’è andato con questo atroce sospetto. Chissà come si è fatto quest’idea; forse gli è venuta perché non ha mai capito bene come riuscissi a sbarcare il lunario non facendo nulla di visibilmente concreto, come edificare case, fare il pane, zappare orti. Lui che ha costruito la vita sua e della sua famiglia con l’intelligenza delle sue mani, in casto silenzio. Ancora ieri l’altro, nel lindore agghiacciante dell’obitorio, le sue mani incrociate esibivano i calli e le antiche cicatrici che, inequivocabili, testimoniano della storia senza voce di un signor operaio.
E queste parole non sono dedicate a Dinetto; lui ora non ha bisogno di niente, men che meno dell’equivocabile arte del figlio, ma ai molti milioni di nessuno che ancora vivono e vivranno. È in virtù loro se questo merdaio dove quotidianamente ci insozziamo tirando avanti non è ancora l’inferno del niente.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 6 dicembre 2008