Maurizio Maggiani: Dieci capre con i soldi dell’Ici
Così quest’anno non pagherò l’Ici, grazie al primo vero, concreto, tangibile segno di nuova gestione del nuovo governo. Non la pagherò, ed è un fatto; sono soldi, veri, che avrò per le mani, e ci farò quello che mi pare: 231 (duecentotrentuno) euro, tutti sull’unghia. Non male.
Che ci farò con quei soldi? Ancora ci devo pensare. Come il 90 per cento degli italiani non sono in condizioni di patire la fame, dunque non comprerò del pane per alleviarla. Al pari del 70 per cento degli italiani non soffro nell’indigenza, dunque non ho intenzione di acquistare una maglietta, tre paia di calze, un pantalone jeans per mio nipote Richi perché li ha già. Similmente al 50 per cento dei miei connazionali ho un reddito che già mi consente di trascorrere un lieto e salubre periodo di ferie.
Ragion per cui non sarà necessario che utilizzi il malloppetto per farmi un weekend da qualche parte non troppo cara. In privilegiatissima compagnia di un esiguo e aristocratico 15 per cento dei contribuenti del mio Paese, ho un reddito così elevato che già mi consento di acquistare libri e giornali, frequentare teatri e cinema, visitare musei e andare a cena in trattoria quasi settimanalmente, ragion per cui non mi sentirò nella condizione di concedermi finalmente svaghi che prima mi erano preclusi; magari ci fossero abbastanza buon cinema e buona musica e buona letteratura e buona cucina da aver voglia di spenderci di più. Cosicché prenderò questo gentile omaggio del governo e me lo sputtanerò, per usare un termine già presente nel nuovo dizionario Zanichelli. Lo sputtanerò al pari di una buona metà dei contribuenti, come mi sento di azzardare. Forse comprerò l’iPod a Richi, forse un paio di scarpe in più delle già più che sufficienti, magari una scatola di sigari cubani; roba così, roba in di più, roba che se non ce l’avessi non cambierebbe di un niente la qualità, vera, della mia vita.
Comprando futilità, sputtanando denaro aiuterò la ripresa economica? Di certo aumenterà il fatturato della Apple, della premiata fabbrica di sigari Romeo y Julieta, della Geox, con conseguente probabilità di aumento della produzione. Chissà, magari farò del bene con i miei 231 euro all’economia mondiale. Ma per l’ovvia legge dei vasi comunicanti, i soldini dell’Ici arrivano alle mie tasche perché se ne vanno via da un’altra parte. So che i miei connazionali sono letteralmente impazziti di gioia per questa redistribuzione tanto attesa, ma mi chiedo se sono davvero, come li si fa, così fessi da pensare che il signor Tremonti abbia passato un paio di notti in bianco per stampare biglietti di banca da dare in giro. E mi chiedo se sono interessati, anche solo un pochino, a sapere da dove vengono questi nostri, sacrosantamente nostri soldi che ci accingiamo a sputtanare. Io lo so da dove li prendono, e ve lo dico. Lo so perché lo ha detto il signor Sandro Bondi, ministro ai Beni Culturali. Vengono per lo più da lì, sottratti alla cultura del Paese che si vedrà nei prossimi anni decurtata del 50 per cento le sue disponibilità di spesa e investimento.
Non so se interessi a qualcuno, ma si dice in giro per il mondo che la cultura è un bene primario, i beni artistici e culturali un patrimonio essenziale; ci credono così tanto intorno a noi che i Paesi europei ci hanno lasciati ultimi laggiù in fondo come investimenti culturali. Ora non è che bisogna andare per forza dietro alle mode europee e ammalarsi di esterofilia su questioni secondarie come i beni culturali e artistici, ma sarei curioso di sapere se i miei connazionali sono dell’idea che far decadere i musei, non aprirne di nuovi e migliori, sacrificare i fondi delle biblioteche, chiuderle e non aprirle dove non ce ne sono, fare meno musica, meno teatro, deprimere le esperienze culturali dei giovani non ce ne può fregare di meno. Che è roba che non aggiunge niente alla qualità, vera, della nostra vita; che con tutti i problemi che ci abbiamo chi se ne frega della cultura. Come sarei curioso di sapere se i miei connazionali contribuenti pensano davvero che il giorno che si troveranno due, trecento euro in più nel portafogli potranno finalmente sentirsi uomini e donne realizzati, appagati, consapevoli e produttivi. Non parlo ovviamente di quelli che con quei soldi compreranno il pane e le calze ai figli; anche se mi viene in mente mio padre, operaio, che risparmiava sulle sigarette e sulle sue camicie per comprare a rate i libri che avrebbe fatto leggere ai suoi figli, e al figlio maschio, nel compimento del suo decimo anno di età, ha regalato la tessera della biblioteca. Dei libri e della biblioteca il figlio spera di aver fatto buon uso, adeguato alle aspettative del padre, ma è sicuro che senza quelle opportunità sarebbe peggiore di quello che è.
È per questa ragione che se lo Stato mi chiedesse domani 231 euro come contributo personale a un serio piano di sviluppo culturale della nazione, glieli darei senza battere ciglio, e sono sinceramente curioso di sapere quanti altri contribuenti farebbero come me, almeno tra quelli che hanno già tutto l’essenziale, tranne un buon piano nazionale sulla cultura. Forse non così pochi come ci credono che siamo.
P.S. No, alla fine non sputtanerò la mia Ici ritrovata. Con Richi abbiamo deciso di investire in dieci capre che una Ong distribuirà alle famiglie di un villaggio della Sierra Leone. Faremo così per non essere tentati da un iPod o da una nuova locomotiva del nostro già trafficatissimo plastico ferroviario. Siamo forse io e lui anime buone, spiriti eletti? Manco per sogno, siamo solo alla ricerca di un po’ di senso delle proporzioni. E non dico che non ci costi pesanti sacrifici.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 8 giugno 2008