Maurizio Maggiani, Dario Vergassola: Cara città ti amo, meriti le primarie
Io e lui, lui e me, un comico e uno scrittore, nessuno dei due troppo bravo, nessuno dei due troppo scabeccio per avere devastanti complessi in su o in giù, nudi e crudi così come siamo, abbiamo pensato di fare una cosa che non si deve fare: abbiamo posto domande di natura politica alla città dove continuiamo a vivere e a tornare. Dove paghiamo l’Ici pur di tenere una casa che vogliamo continuare a pensare nostra, dove non smettiamo di farci del male incontrandoci al circolo su in collina con gli amici che sono rimasti lì a fare da sentinella; lì impalati sull’attenti ad aspettare quello che non è mai venuto, per il puro e semplice voler bene a quella città e a quello che avrebbe potuto essere. A quello che avremmo potuto essere noi in quella città se fossimo mai stati qualcosa di meglio di ciò che siamo e di ciò che si è ridotta a essere lei. Da gente come noi ci si può aspettare diverse cose e perlopiù malsane in fatto di politica. Di solito ci si aspetta che ci si ficchi in situazioni imbarazzanti per mancanza di pudore e di senso delle proporzioni. Noi non abbiamo fondato nessunissimo comitato, non abbiamo aderito a nessunissimo partito, non abbiamo proposto le nostre facce a nessunissima carica almeno finché dura, godiamo di una vita già abbastanza piena ed appagante ma ci siamo messi in mezzo alla strada a chiedere alla gente perché non la facciamo finita con questa spaventosa immobilità, con questa condanna che la città si è auto inflitta: passare il resto dei suoi giorni a lamentarsi di se stessa, grattandosi le rogne che si è andata a cercare frugando nelle pattumiere dove si è illusa di trovare da camparsi. Abbiamo chiesto alla gente perché mai non proviamo, una volta tanto, per la prima volta, a fare la cosa più semplice che ci si dovrebbe aspettare da una città quando dà segni di vita: riuscire ad eleggere un sindaco che ci siamo scelti, che abbiamo voluto, che abbiamo sperato. Scegliere il nostro candidato in base a ciò che ci dimostra di voler essere e di voler fare. Un tizio magari per niente speciale, ma che ci sbatta in faccia programmi attendibili, e ragionevoli modi per la loro realizzazione. Scegliere avendo il massimo delle informazioni e la più ampia libertà di scelta. Da poter dire: questo è l’uomo, o la donna, che abbiamo scelto perché sia la parte migliore di tutti noi. Così abbiamo starnazzato chiedendo l’unica cosa che ci è venuta in mente come passabilmente adatta: le elezioni primarie, almeno per il candidato dei progressisti; visto che continuiamo, con la stolida costanza della Torre di Pisa, a pendere da quella parte. E chissà mai! Giusto, manco fosse la luna, manco fosse il Giudizio Universale. Genuine, oneste, libere, aperte elezioni primarie sono il minimo che possiamo chiedere a noi stessi per smetterla di andare a votare con la faccia di quelli che non ne possono più, è il minimo che possiamo chiedere al potere politico per dimostrarci che è ancora capace di esistere accettando la democrazia come un fatto e non come una scusa. Naturalmente siamo ingenui, ma naturalmente non siamo più vergini. Lo capiamo che le elezioni primarie non sono la mano santa, che il potere politico sa cosa fare per renderle il più innocue possibili. Ma anche a ragionarci sopra all’infinito, è tutto quello che abbiamo. Di certo, se la gente della città fosse tentata di prenderle sul serio, in una città dove da tempo immemorabile il sindaco nasce si pasce e muore in una segreteria di partito, quella serietà sarebbe un gesto difficile da equivocare. E i gesti dicono molto, e dove le cose vanno in degrado fanno anche molto. I gesti sono capaci di cambiare i rapporti tra i cittadini e i poteri che li regolano; sono capaci di mutare il regime dei poteri e di cambiare i cittadini stessi, ognuno per la sua parte in meglio. Abbiamo strillato queste cose per la strada senza sapere se ne sarebbe venuto qualcosa di buono, e oggi non ne sappiamo di più. Continuiamo a ripeterci l’un l’altro che, nonostante le apparenze, siamo gente abbastanza normale, con bisogni normali, aspettative ragionevoli. a possiamo forse pensare che la normalità e la ragionevolezza sia rassegnarci ad essere qualunque cosa e a farci governare da chiunque? Possiamo pensare che si possa vivere facendo un piccolo passo indietro tutti i santi giorni da quello che ci saremmo aspettati per noi stessi, per la gente che amiamo, per la città a cui vogliamo bene? Quando crediamo che le cose siano ferme e stagnanti e quello che resta da fare è galleggiarci sopra, prendiamo un abbaglio, perché nell’immobilità si sprofonda e si annega. Vediamo adesso che ci siamo dimenticati di scrivere il nome della città. Ma davvero conta qualcosa? Ci sono città così diverse l’una dall’altra, e il Paese è così diverso dalle sue città, quando gli facciamo domande di politica?
Tratto da “Il Secolo XIX”, 29 ottobre 2006