Maurizio Maggiani: Com’era più bello il mondo nelle mie figurine sul 2010

Primo gennaio, nove di mattina; mai come adesso la città è così melanconica e solitaria, così provvisoria e incerta nel suo lento respiro. Me ne sarei potuto restare in casa, invece che fare l’originalone e aggirarmi sotto la pioggia tiepida a disturbare la catatonia in cui si sono lasciati affondare uomini e luoghi; persino il negozio cingalese è chiuso, addirittura i venditori di ombrelli latitano, dissolti nel nulla dei loro indecifrabili magazzini. Ma oggi è un anniversario, un giorno di verifica importante, e sono per la strada a celebrare. Cinquant’anni fa come oggi usciva nelle edicole, e di lì a pochi giorni volonterosamente diffuso all’uscita delle scuole, un album per la raccolta di figurine intitolato: il Mondo nel 2010. In quell’anno 1960 ho rinunciato a ogni cosa, ghiaccioli estivi e bomboloni invernali compresi, pur di completare la raccolta; ero oltremodo ansioso, curioso ben oltre la naturale propensione al futuro di un ragazzino, di scoprire subito quello che non avrei forse potuto vedere: a dieci anni sembrava molto dura la meta dei sessanta, soprattutto allora, che a quell’età si era già veramente vecchi.
Ma eccomi qua, ce l’ho fatta, e nessuno, ma proprio nessuno osa dirmi che sono un vecchio miracolosamente traguardato nel 2010. In verità, quella che vado compiendo questa prima mattina dell’anno è la cerimonia, il momento conclusivo e solenne di un lungo percorso attraverso i molti occhi che la contemporaneità mi mette a disposizione in aggiunta ai miei per guardare il mondo. E so già che tutto, ma proprio ogni cosa di ciò che le figurine mi avevano promesso di vedere, posso solo continuarlo a immaginare.
Forse quello era l’album del 3010. Il mondo di quell’album era meraviglioso, letteralmente pieno di meraviglie. Ogni cosa lo era. Gli aeroplani, le strade, i treni, i vestiti, le case, le navi, tutto. Disegnatori colmi di ottimismo, propugnatori indefessi dell’infinita capacità umana di creare, apostoli del progresso inarrestabile, hanno costruito una favola di meraviglie, una fabbrica di stupore, un’enciclopedia dell’illusione. Mi ricordo e constato.
Niente città anulari orbitanti, ma solo una vecchia e informe stazione, testimone dell’antica e dimenticata supremazia spaziale sovietica, data in affitto per mancanza di soldi. Niente superstrade elevate al cielo percorse da automobili a reazione, niente case a bolla sospese nell’aria, niente transatlantici a razzo, e persino niente completi unisex in terital autostirante. Dei treni sospesi su campi elettromagnetici, solo un paio in servizio a Tokio e Shangai, e nessuno dei due che anche solo si avvicini alla velocità del suono. E niente dolcissime pillole per pranzo o per cena, niente giardini subacquei, miniere d’oro marziane; di teletrasporto e viaggi stellari neanche a parlarne. E niente pace universale, e poche facce ridenti in ogni parte del mondo.
Non me l’aspettavo, non a dieci anni, e nemmeno a venti, e, forse, nemmeno a trenta, che quell’album si sarebbe rivelato alla fine una gran balla. Io gli ho creduto finché ho avuto forza di immaginarmi il futuro come la meraviglia di tutte le meraviglie. Che delusione il 2010 dal vero, che peccato esserci arrivato solo per passeggiare solingo e vedere che assomiglia assai più al resto di ciò che era che all’inizio di ciò che sarà.
Qua e là, agguantati alle finestre, arrampicati sui muri dei cortili, alle cancellate, appesi tra i rami degli alberi, finiscono di dissolversi in una poltiglia di poliestere i Babbi Natale arrampicatori. Hanno cominciato a furoreggiare qualche anno fa, di ogni misura, muniti di scala di corda e sacco in spalla. Mi sono sempre sembrati piuttosto le scaramantiche effigi di rapinatori acrobati di appartamenti, che quelle augurali di portatori di doni. Ora che sono vecchi e consunti, fradici di pioggia, sembrano tanti fantocci impiccati alle case, macabri pupazzi esibiti da una fosca credenza popolare.
Non sembra che possano augurare niente di buono, sembra invece che raccontino di una triste malinconia che alligna nella città, già assai prima di questa mattina silenziosa e dormiente, di gente già stanca prima della poca baldoria di ieri notte. Forse in ogni casa c’è memoria di quell’album di figurine, e c’è delusione, e smarrimento per la grande bugia in cui tutti abbiamo gioito nel credere.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 3 gennaio 2010