Maurizio Maggiani: Cartoline da Napoli, dove si può essere felici e dove i cervelli fuggiti all’estero a volte tornano

Secondigliano, lunedì di Pasqua. Il forno è aperto, il forno è sempre aperto; compro le pannelle ancora tiepide; otto commensali, quattro pannelle che fanno quattro chili senza bisogno di pesarle. Si mangia ancora tanto pane qua, e nessun fornaio è disposto a farlo meno che bene a un prezzo meno che buono: rischierebbe molto di più di quanto ci potrebbe guadagnare. Dal fioraio sull’Ape davanti al forno compro, per la padrona di casa, delle calle bellissime, appena sbocciate. Il fioraio è gentile e competente, parla un napoletano dolce e colto, compone un mazzo di signorile pomposità e mi chiede un terzo di qualunque fioraio di strada genovese.
Carico di pane e fiori, faccio due passi. La spazzatura traborda appena dai cassonetti, fisiologicamente se contiamo che ieri era festa; l’emergenza rifiuti è finita il mese scorso, si sa che risorgerà per la pentecoste o poco dopo. Una macchia nera grumosa sul bordo di un marciapiedi spiega che qui hanno incendiato un’automobile, ma che gli addetti alla pubblica nettezza hanno anche provveduto a sgomberare i resti.
Nel parchetto comunale una famiglia gioca a pallone sulla pista di pattinaggio: padre e madre difendono due porte segnate con il gesso. È la loro gita fuori porta. Ridono, giocano, chiacchierano e prendono il sole tutti assieme. Dalla cortina di un immenso glicine arrivano i toc toc di una partita di bocce e qua e là spuntano l e teste degli antichi abitatori, vecchi che parlano una lingua sconosciuta anche ai miei amici. Perché non supporre che si possa essere felici, oggi, qui, nel cuore del paese di Secondigliano, sotto il giogo della malasorte e pur vivendo in buona sorte?
Passo davanti alle scuole dove i miei amici hanno fatto le superiori; le medie e le elementari le hanno fatte in un garage: imprevista esplosione demografica dovuta a un improvviso sviluppo edilizio. Accanto alle scuole si erge lo scheletro in cemento armato di quella che, venti anni fa, avrebbe dovuto essere – e prima o poi vedrete che lo sarà – la palestra: mancano i fondi, i contributi, le gare, le ditte, gli appalti.
Quando i miei amici sono venuti a vivere qui, nei primi anni Settanta, il loro condominio era l’ultimo del quartiere, proprio sul ciglio dei boschi di Capodimonte, e Secondigliano portava ancora i segni di quello che è stato il sito di villeggiatura dell’aristocrazia ottocentesca del centro città. Oggi vivono in quello che si vede alla televisione, più o meno. Oggi davanti al portone hanno un capannone industriale, abusivo, una scuola materna privata, abusiva.
Il condominio è tutto un brusio di voci di casa; salendo le scale posso accertarmi dello stato di avanzamento del pranzo di Pasquetta, famiglia per famiglia. Quasi nessuno è andato in gita; è un condominio di piccoli borghesi, molti insegnanti e pubblici funzionari: venti anni fa i soldi per la gita li avevano, oggi non più.
Come tutti gli altri, anche i miei amici hanno fatto le cose in grande: due “torni” di casatiello, ziti al vero ragù e linguine alle vongole “arselle”, cervellatine arrostite, composizione artistica di affettati casertani e ricotte salate di Aversa, due pastiere di due diverse scuole. Questi i fondamentali di tradizione; in più qualche “piattino” moderno per rispetto all’ospite. Si parla di ogni cosa, ma con mite benignità. Il resto, il dolore, non oggi. E ridendo il capofamiglia racconta quanto segue. Sul più importante quotidiano nazionale, in un articolo sui cervelli italiani in fuga all’estero, ha trovato il nome di un ricercatore insediato a Londra che potrebbe essere risolutivo per un grave problema di salute della figlia. È di Acerra, a due passi, e nel paese natio tiene uno sceltissimo ambulatorio. Porta a visitare la figlia, chiede della segretaria per pagare la visita e il cervello dice: ma no, dia pure a me. E ghermisce i bigliettoni e li ficca nel portafoglio. L’avesse fatto a Londra, ma a Londra neppure si sogna di farlo, sarebbe già sigillato in una segreta. Forse è per questo che i cervelli, a volte, ritornano? Per nostalgia delle antiche tradizioni?

Tratto da “Il Secolo XIX”, 15 aprile 2007