Maurizio Maggiani: Caro sottosegretario, lo sviluppo non sta in una tazzina di caffè
Giorni fa mi hanno raccontato un piccolo episodio ferocemente significativo; non lo riporterei se non fossi sicuro dell’attendibilità del narratore, perché neppure il mio disincanto riesce, almeno a volte, a farsi una ragione della realtà. Dunque, Marola è un piccolo vecchio borgo marino della costa occidentale del Golfo della Spezia. È un sito molto bello, con una comunità ancora ben strutturata e in grave crisi. Al pari di tutta “la costa di ferro” del Golfo, negli ultimi 150 anni non ha mai conosciuto altra vocazione se non quella indotta dall’Arsenale militare: la gente di Marola, generazione dopo generazione, ha vissuto del lavoro che le è venuto da quello che è stato, a suo tempo, la ragione stessa della nascita e dello sviluppo della città: il più grande arsenale navale d’Italia. Ora non è più così, ora l’Arsenale vive una inarrestabile, lenta, persino patetica, decadenza. Ragioni strategiche lo hanno spinto alla periferia estrema degli interessi militari del Paese; le sue capacità produttive sono crollate, i suoi tecnici, i suoi operai – quell’aristocrazia tecnocratica che è stata l’orgoglio identitario della città – se ne sono andati da tempo in pensione, e l’Arsenale ha oggi l’aspetto e la sostanza di un gigante morente nell’abbandono, un immenso spazio desolato nel cuore della città.
Naturale che il più grande desiderio di Marola, e della comunità intera della città, sia quello di riappropriarsi del territorio che a suo tempo è stata costretta a cedere alla Marina militare, trovare una ragione diversa da quella che fu per la sua esistenza e per il suo sviluppo. È un posto talmente bello e interessante che sarebbe davvero difficile non riuscire a progettare qualcosa di veramente importante per la città intera. La comunità discute di questo; discute di sviluppo, turismo, servizi, tecnologie, progetti a lungo termine, bisogni a breve, sogni visionari, ragionevoli aspettative. Dal canto suo, la Marina militare è assai restia, per non dire di più, a cedere quello che ritiene le appartenga. La Marina militare è un potere forte, oltreché tenace, e non potrebbe essere diversamente in una città che, in fin dei conti, si è inventata lei, per servire a un disegno strategico che 150 anni fa poteva sembrare valido per l’eternità e che oggi assai malvolentieri constata esaurito: il potere è sempre indisponibile a rinunciare al potere.
Per fortuna nostra le forze di difesa, l’esercito, non sono un potere autonomo, ma sono funzione dello Stato, e lo Stato ha i suoi governi che si occupano di decidere e scegliere nel rispetto delle leggi circa il bene dei cittadini. Così che un bel giorno è arrivato a Marola il governo nella persona del sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri. Un amico, visto che è stato eletto, rieletto, rieletto ancora senatore proprio nel collegio di pertinenza della città. Il sottosegretario naturalmente è uomo di mediazione – diversamente come potrebbe fare il suo lavoro? – assai sensibile alle ragioni della difesa e a quelle dell’elettorato. Da amico degli uni e degli altri ha maturato una sua idea di sviluppo e di futuro per le aree dell’Arsenale non utilizzate prospicienti Marola: portarci la Guardia di finanza, motovedette, uomini, materiali. Ai cittadini non è parsa una grande idea. Non vedevano quel grande futuro di sviluppo in qualche motoscafo e in un centinaio di finanzieri, cosicché hanno vivacemente esplicitato i loro dubbi in un incontro non facile per il sottosegretario. Che alla fine, immagino esausto, ha calato il suo asso, ciò che gli pareva decisivo per convincere la gente: “Guardate che cento finanzieri sono almeno duecento caffè al giorno!”. Nello stupito, o affranto, silenzio generale si è levata, forte e franca, una voce: “Senatore, ma l’hai mai visto un finanziere che si paga il caffè?”. Applausi.
Personalmente sono convinto che se non tutti, parecchi finanzieri si paghino il caffé, anche se la secolare familiarità con la Guardia di finanza della gente dell’Arsenale potrebbe fare testo, ma il punto non è questo. Il problema è l’idea di sviluppo del sottosegretario e dunque del governo. Che se fosse quella dei caffè sarebbe non solo risibile, ma persino offensiva, in questo caso nei confronti della comunità spezzina. Eppure il governo cita la parola “sviluppo” con ossessività, evidentemente ritenendola taumaturgica, risolutiva, definitiva per ogni suo atto. E temo che la usi un po’ come fanno i politici con la parola “riformismo”, in assoluto la più citata assieme a sviluppo.
Riformismo, va bene, ma che cosa vuol dire, quali sono gli atti del riformismo, riformare che cosa e come? E così sviluppo. Quale sviluppo, come, per chi e per che cosa? Duecento caffé, ancorché debitamente pagati, sono sviluppo? Fin dove si spinge lo sguardo del sottosegretario, quello del suo ministro, quello dei ministri tutti? Non dico visione, che sarebbe troppo, visto che qui non aleggiano gli spiriti di Martin Luther King, di Robert Kennedy o di Olof Palme, ma semplicemente sguardo. Immagino che il ministro Tommaso Padoa-Schioppa abbia un’idea di sviluppo un poco più complessa, e spero non solo lui. Ma se è vero che sono gli atti che creano le cose e lo sviluppo, è anche vero che a determinare gli atti ci sono le idee. E le idee non sono comizi, le idee sono sguardi; e piùè lungo lo sguardo, più consistenti gli atti.
L’idea della Guardia di finanza in cambio di caffè pare che abbia avuto vita breve anche nella testa del sottosegretario. Ma quanti sottosegretari stanno andando in giro per il Paese a proporre i loro 200 caffè? Per non parlare di quelli che già ci sono andati nel corso degli anni e dei decenni.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 28 gennaio 2007