Maurizio Maggiani: Basta spot elettorali, mi è scattato il troppo pieno

Sono un elettore sofisticato e in virtù della mia superiore sciccheria il prossimo 9 aprile esprimerò le mie preferenze elettorali senza la necessità di stare dietro alla campagna elettorale. Potranno mettersi nudi e dimostrare al popolo di saper levitare in aria, potranno cantare il meglio repertorio della canzone melodica italiana, che non sarò lì a vederli e a sentirli; non per decidere, che ho già deciso. Ho deciso nel corso degli anni, ho deciso nel corso delle cose, della materia, dei fatti. Vivo in uno stato di consolidata coscienza, di diuturna sofferenza morale, di immarcescibili speranze, di durature illusioni. So cosa mi piacerebbe per me e per la mia gente, so addirittura cosa mi piacerebbe per il mondo intero, so cosa posso aspettarmi di avere, so cosa posso fare e quanto per averlo. Basta o no, per sapere come votare? Io credo di sì.
Ma pare, appunto, che si tratti di una posizione molto snob. Mi dicono gli intenditori che il popolo di questo Paese nella sua generalità viva in uno stato di obnubilazione, di vacua incoscienza, di inconsapevole attesa, preda del timor panico generato da una profonda ignoranza, ragion per cui il risultato delle prossimissime elezioni è ancora tutto da decidere, e sarà deciso sugli schermi televisivi, l’unico luogo – ne sono sicuri – in cui il popolo riserva fede e speranza, certezza e ragione.
Avrei tanto sperato che così non fosse; tra le mie speranze c’è pure quella che la gente adulta fosse tutta in grado di vivere nella realtà, misurarsi con la propria e l’altrui verità per formarsi in un giudizio consapevole, ma pare che sia l’unico a pensarla così. I sopraddetti intenditori, in primis i quadri politici e i loro esosi consulenti, mi spiegano che sarà lo spettacolo, la messa in scena, la plausibilità della fiction che faranno decidere la massa. Che in qualche modo è sempre stato così, che così sarà per sempre, ovunque nel mondo democratico. Altrove il problema nemmeno si pone.
Per questa ragione, per mettere alla prova il mio snobismo, ho rotto il mio giuramento circa l’astensione dai raggi catodici e mi sono esposto alle loro mortali radiazioni, e questo in aggiunta alla lettura delle pagine politiche dei giornali, all’ascolto di due rassegne stampa radiofoniche, al vociare megafonico per le strade. Mi sono immerso nella comunicazione popolare, insomma. E adesso sto male. Non sto scherzando, non ne sto facendo una metafora, non mi esprimo per immagini: sto dicendo che sto “veramente” male. Di un male fisico, certamente indotto dalla psiche, ma pur sempre materia dolorante. E il sintomo prevalente è la nausea.
Ripeto, non parlo per insulsa metafora: è vera, stolida, stomacosa nausea. Mia nonna la chiamava, per distinguerla da altre forme di nausea più circoscritte nella loro struttura sintomatologica, più evidenti nella relazione tra certa e specifica causa e immediato effetto: “limo de stomego”. Quella sensazione di onesto, inesausto, inopponibile lavoro di sottile lima da ferro sulle pareti interne dello stomaco, e del piloro in particolare.
Non sono un qualunquista, ripeto, non credo che lo diventerò mai, a questo punto. Da quando mi ricordo ho sempre seguito con partecipazione, a volte, con interesse, sempre, le battaglie elettorali del mio Paese, della mia città, persino del mio quartiere. Anche quando – ed è successo perché l’uomo non è di legno – un certo qual dolente distacco mi ha tenuto lontano da una partecipazione positivamente fidente – come dire? – ho sempre trovato un certo qual piacere sportivo a seguire le vicende della campagna elettorale. Questa volta no, per la prima volta nella mia vita, no.
Solo un defatigante, e a questo punto persino invalidante, “limo di stomaco”. Perché? Credo che si tratti del troppo pieno. Sapete cos’è, no? Il troppo pieno dello sciacquone del bagno, della cisterna sul tetto, della caldaia del riscaldamento. Il meccanismo a valvola che blocca l’afflusso di acqua quando l’acqua minaccia di traboccare da un recipiente.
Questi mesi – non giorni, mesi – i miei occhi, le mie orecchie, il mio naso, hanno visto e sentito troppo. Troppo comunque, troppo per troppo tempo. Troppo di tutto e di tutti, e in special modo troppo del peggio. E il peggio io lo avverto quando sento di essere confinato nella zona di penombra e indefinibile tanfo dell’incoscienza, della minorità, dell’ignoranza, della smemoratezza, dei singulti reconditi, delle trippe che sommuovono. E quando è troppo è troppo, cosicché non sono più capace di sopportare neppure il buono; che del buono c’è pure, visto che questo Paese non è ancora l’inferno, né la Cajenna, né un incubo psichedelico senza via di fuga. Ecco, è scattato il troppo pieno. Ma il sistema di sicurezza è incapace di fare il suo dovere, non riesce a trattenere la spinta della massa magmatica e vischiosa che non cessa di filtrare oltre le mie difese. Troppo potente, inarrestabile. E la nausea, il “limo de stomego”, è il sintomo dello smangiamento, dello sfibramento a cui la mia psiche e il mio soma sono sottoposti dal gigantesco blob alieno che continua a insinuarsi da ogni dove. Potrei spegnere radio e televisione, smettere di leggere i giornali, ma non credo che cesserebbe. Ormai si è incitato e cronicizzato.
Fra quindici giorni sarà tutto finito. Sì? No, non credo. Questa campagna elettorale lascerà il segno. Su di me di sicuro, ma credo onestamente su tutti quelli che hanno avuto occhi, orecchi e naso. Non mi passerà il “limo de stomego”, ci vorranno cure assidue e lunghe, efficaci rimedi. E mi chiedo chi sarà in grado di curarmi, se una cura ci sarà. E se varrà la pena di badare a me, elettore sofisticato, di gusti sciccosi, nicchia di mercato insignificante, inadatta a fare la fortuna di chicchessia. Uno che andrà a votare senza aver bisogno di turarsi il naso, visto che l’olfatto lo ha già perso nello shock del troppo pieno.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 2 aprile 2006