Maurizio Maggiani: Barcellona si è venduta? Ho i miei dubbi
Sono tornato a Barcellona dopo quindici anni. A tenermici fuori per così tanto tempo è stato in primis Vásquez Montalbán; gli volevo bene come a uno zio prediletto e non ho mai voluto fargli il torto di trovare visitabile e ancor meno abitabile una città che lui giudicava ormai venduta e perduta. In secundis mi infastidisce non poco l’inesauribile chiassosa e invadente fila di gitanti colti che da anni si accalca alle frontiere della nazione Catalana in cerca di vitto e alloggio; metaforici e spirituali, naturalmente. Comunque ci sono tornato; Montalbán non c’è più a criticarmi e in questi giorni di bassa stagione il massimo del culturale che puoi incontrare in coda al controllo doganale sono degnissimi e dignitosissimi e pochissimo ciarlieri professori di istituti tecnici e professionali in accompagnamento didattico alle loro scolaresche assi poco propense ai cibi dell’anima. In ogni caso ottimi compagni di viaggio, indispensabili addirittura se, come fermamente credo, è necessario in vista di mete così importanti mantenere il senso delle proporzioni. Per andare a Barcellona ho preso l’aereo a Pisa. Come ci è ben noto Genova ha un aeroporto, ma tra le molte cose che gli mancano c’è pure un volo diretto per Barcellona. La società che lo gestisce dovrebbe essere venuta a conoscenza che alcune e non indifferenti cose legano nella storia e nell’attualità le due città; città gemelle e coltelle che trafficano e vorrebbero trafficare ancor di più in molti importanti campi del progresso e dello sviluppo. Ci sono stati certi momenti in cui sarebbero stati necessari dei voli charter solo per portare a Genova e riportare a casa gli architetti barcelloneti con consulenze e incarichi da disbrigare qui da noi; ma, prudentemente, l’aeroporto Colombo preferisce mantenersi sulle sue e offrire, a chi lo gradisse, un passaggio per la Malpensa, l’aeroporto più inospitale d’Europa. A Pisa, città nota per la sua torre che neppure i summenzionati architetti potrebbero rimettere a filo, ci sono due voli giornalieri, uno a basso e l’altro a congruo prezzo, che vanno prenotati con largo anticipo perché molto ambiti. Ma non importa, ho fatto le cose per tempo e, cosa che a me piace molto, dalla ferrovia sono andato all’aeroporto a piedi: quando si dice volo domestico! Barcellona è cambiata, aveva ragione Montalbán, e non so dire se mi piace o mi dispiace così com’è ora. Di certo ha meno fascino là dove la vecchia città è stata ripulita ben benino, dove le cantine puzzone si sono fatte caffè turistici, là dove i vecchi del Barrio Gotico hanno dovuto migrare all’estrema periferia, cacciati da agenti immobiliari armati fino ai denti. Di certo risulta angosciante il pieno di spazi e il vuoto di vita del porto vecchio, trasformato in quello che i genovesi vedono in scala un po’ meno ambiziosa ma anche un po’ meno inquietante nel gemello di casa loro. Di certo non è così romantico e appagante dividere lo spazio cittadino con qualche milione di turisti di modeste pretese e scarsa sensibilità; men che meno lo è constatare di essere pervasi dalla presenza delle società di servizi multinazionali sotto le sordide spoglie di una tipicità tutta farlocca. Ma ti basta una mattinata a gironzolare attorno e dentro al Museo di Arte contemporanea, per renderti conto che se si sono venduti, quelli lì i soldi poi non se li sono mangiati. E se la cultura urbanistica, se l’architettura, se la pulizia, la limpieza sono un lusso, i barcelloneti amano scialare. Ci tengono a fare i signori. Quindici anni fa sui muri della città c’erano enormi manifesti della Generalitat, del governo locale, senza immagini ma con su una semplice scritta: “Fez cultura”, fate cultura. E sembra che li abbiano presi sul serio. Se cultura è difformità, sorpresa, sperimentazione, qualità della vita, pulizia delle strade, programmi scolastici, dibattito politico, e “ganar la comida”, guadagnarsi il pane, decentemente e dignitosamente. O forse questa non è cultura, ma sviluppo. O forse lo sviluppo è cultura; chi lo sa? Di certo la città è un po’ meno affascinante, ma assai più ricca; i barcelloneti sono più ricchi, che forse è un poco diverso. Ricchi di molte cose, tra cui non si piazzano al primo posto le auto di lusso. Più ricchi, a questo proposito, di taxi, che adesso sono più di 11000 e costano la metà che a Genova e sono il doppio più comodi e più veloci. Più ricchi, pensate un po’, di politica: cosa che vista da qui ci parrebbe da far schifo. Ma aprite “La Vanguardia”e “El Periódico”, i due maggiori giornali della città, e capite in fretta cosa significa cultura politica o politica dello sviluppo? in un altro mondo dal nostro. Il tema di questi giorni è lo Statuto, il compimento dell’autonomia catalana. Ci sono posizioni diverse in merito, tra partiti e tra culture diverse. Leggete cosa dicono i politici, cosa dice la gente. Cosa dicono gli industriali, cosa dicono gli intellettuali. Cosa dicono e come lo dicono, i conti che fanno e come li fanno, i progetti che immaginano e come li realizzano. E poi fate ritorno al dibattito e al dettato della legge nostra detta “devolution”, tanto per fare un confronto diretto. E sognate. L’anno scorso le casse dello Stato spagnolo hanno avuto un disavanzo attivo, che noi, perlamordiddio, nemmeno ce lo sognamo. Mi chiedo se ci sia una relazione tra questo dato così poco spirituale e lo spirito del “fez cultura” del vecchio manifesto. Mi chiedo perché mai il mio amico e coetaneo Juan, farmacista e cantautore catalano che se ne è andato in galera al tempo di Franco per le sue canzoni appena infartuato e baipassato, continua a sembrarmi un ragazzo pieno di progetti e di cose da voler fare fra un anno, fra dieci, fra cento, e io torno a casa con la spiacevole sensazione di vivere in un Paese acquitrino dove galleggio come un’acciuga franta.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 5 marzo 2006