Maurizio Maggiani: Appunti dal Paese del banana-box

Richi, l’ineffabile nipotino ha da oggi una ragione in più per apprezzare lo zio: ha appena ricevuto dalla di lui munificenza un nuovo prezioso regalo, tanto utile quanto dilettevole. Ecco, il Banana Box, “il simpatico contenitore adatto per banane di generose dimensioni che ti permette di portare nello zaino la merenda senza rovinare il frutto. Euro 5,50”.
Ho trovato questo splendido oggetto, di cui purtroppo non posso allegare l’esaustiva immagine, nel catalogo di una catena di negozi di utensili casalinghi. Il tema della banana – o della bananetta, come amichevolmente si chiamava ai tempi della mia infanzia – è universale e attraversa le generazioni. Da quando negli anni 50 le banane somale si sono rese disponibili e economiche sul nostro mercato e i consigli pediatrici sono diventati ascoltati servizi del sistema sanitario nazionale, il frutto dolce e nutriente si è fatto parte integrante della dieta infantile. Non c’è mamma d’Italia che non abbia messo cento, mille bananette nella cartella del figliolo per rimpinzarlo di zuccheri, fibre e potassio. Non so quante di quelle banane siano state davvero mangiate e quante finite nel cestino del bidello. Perché la banana si spiaccica. Basta un niente per farla diventare un disgustoso mappazzo. Bastano un paio di spintoni tra compagni, un lancio di cartella oltre il cancello chiuso, un calcio tra i mille che volano tra bravi bambini, un’appoggiatina contro un muro, una sedutina a mo’ di cuscino al bordo del cortile in attesa del turno per tirare a una palla.
Chi non ricorda? Quanti milioni di banane sono state spiaccicate, quanti milioni di cartelle e zaini lordati senza rimedio, quante sane merende saltate o sostituite con abominevoli snack? Ecco, ragionevolmente, nell’ammirare il Banana Box, contempliamo il genio, l’invenzione tanto necessaria quanto invano attesa per decenni. Ed è un primato tutto italiano. Da un’accurata indagine su Internet, posso dedurre che nel settore della tutela delle banane il sistema Italia è leader mondiale. Trionfo del made in Italy, alla faccia di chi chiacchiera sulla arretratezza della ricerca industriale nel nostro paese.
Ho sfogliato il catalogo dove ho trovato il Banana Box con un paio di occhiali nuovi di zecca, appena preparati dalla mia occhialaia di fiducia, Silvia. Silvia ha trent’anni ed è una fisica. Si è laureata egregiamente con una tesi di ricerca sull’utilizzazione di nuove tecniche nella costruzione di cellule fotovoltaiche. Credo che sappiate dell’importanza di questo sistema di accumulazione di energia. Rinnovabile, pulita ed economica. Credo che sappiate che in Italia sono poco usate, nonostante la nomea che si è fatta nei millenni di “paese del sole”; sono i raggi solari da cui le cellule assorbono energia. Forse non sapete che nel Marocco, paese tanto bello quanto assai meno ambizioso del nostro, sono installati sistemi fotovoltaici in quantità cinque volte superiore alla nostra. Silvia vende occhiali perché non ha mai avuto un ‘offerta di lavoro altrettanto seria. Pare che nessuno in questo paese capace di inventare e produrre il mitico Banana Box, sia disponibile ad investire in professionalità per lo sviluppo dei sistemi fotovoltaici, e la loro produzione in larga ed economica scala. Del resto nemmeno si investe volentieri in energia eolica, se è vero, come lo è, che i più efficienti sistemi eolici sono prodotti in Spagna e lì andiamo a comprarli. Silvia fa molto bene il suo lavoro, i suoi occhiali sono i migliori che abbia mai avuto; studia e ricerca soluzioni d’avanguardia per i cecati come me, ci si applica con la stessa energia con cui avrebbe sperato di applicarsi nella sua materia elettiva. Che, a rigor di logica, in un paese normalmente sviluppato dovrebbe dare ai fisici assai maggiori possibilità di lavoro del commercio degli occhiali. Ma questo è il paese del Banana Box. Consoliamoci, perché a guardar bene le cartelle dei nostri figli, non è poco.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 21 novembre 2004