Maurizio Maggiani: A Natale brilla l’Italia degli impuniti
C’è un confessore che presta la sua opera al mercatino genovese di San Nicola in Piccapietra. È un’antichissima tradizione della cattolicità presidiare i mercati patronali con i più valenti confessori e predicatori disponibili sulla piazza o addirittura peregrinanti: un mercato è un luogo molto adatto al peccato; è notoriamente assai facile che pecchi chi vende e può accadere che pecchi anche chi compra. Confessare ed espiare nel luogo stesso della colpa è pratico e conveniente, redimersi ascoltando una vibrante predica sul posto stesso della perdizione può essere salvifico non solo per l’anima ma anche per il portafogli.
La provvidenziale tradizione si è brevemente interrotta nel periodo cosiddetto della modernità, quando il peccato è stato selvaggiamente declassificato in reato e la penitenza tradotta secolarmente in pena. A quel tempo i confessori sono stati sostituiti dai gendarmi e poi dai carabinieri e dalla guardia di finanza, corpi di uno Stato laicizzante scarsamente illuminati dalla luce della profezia. Sempre a quel tempo il peccato, fattosi reato, non era più una faccenda da risolversi segretamente nello sgabuzzino di un confessore, ma in un’aula di giustizia alla luce del giudizio della nazione intera. L’impunità del penitente abrogata in nome di un codice delle pene terrene. La cosa è durata poco, oggi ne resta solo una subcultura residuale difesa con caparbia frivolezza da individui per lo più implicati direttamente nella casta giudiziaria, mai abbastanza monda dal peccato di superbia detto giustizialismo.
Così, nella scia della più pura tradizione, il Governatore della Banca d’Italia affida ciò che gli resta della sua faccia, e non è molto, non all’etica secolare, ma al proprio confessore, e nella fattispecie, dicono i media, al cardinal Re, e ancora confida per la sua carriera, spirituale e terrena, nelle novene dell’Opus Dei piuttosto che nel corso della giustizia repubblicana. In una forma ibrida tipica dei periodi di transizione capita più spesso che un reo, o gravemente indiziato di reato, si faccia eleggere al Parlamento della Repubblica, dove un’apposita commissione di confessori laici è deputata ad assolverlo, avendo ripristinata in nome della sacralità del Parlamento l’antica impunità della soglia, quando varcare il sagrato di una chiesa bastava a rendere intoccabile chiunque, al di là e sopra ogni accusa o prova di colpa.
La crema del ceto politico e imprenditoriale vanta e va fiera di assoluzioni dei tribunali secolari per decorrenza dei termini, dove l’impunità è garantita non dal rifugio in luogo sacro, ma dalle parcelle degli avvocati specialisti in procrastinazioni dei giudizi. Non bastassero loro, gli onorevoli confessori sanno fare leggi adatte a dare una mano. Di fatto si va affermando e rafforzando in questo tempo non più della modernità, il principio antico dell’impunità come condizione di uno stato superiore di cui è diritto godere come lo è stato per i re per grazia di Dio. O per i baroni per grazia di potestà sopra le leggi, o per i vassalli per grazia di potestà sopra i giudici. L’impunitàè un principio che discende e si trasmette per osmosi ai contigui, famigliari e famigli e sodali. E si trasmette come un lascito, o una carica, o un dono, o un titolo nobiliare. C’è una nobiltà degli impuniti per niente schizzinosa.
Quando l’amministratore di una grande banca ruba trenta euro a ciascuno dei suoi contocorrentisti, e lo fa in un Paese che in teoria è dotato di ogni necessario sistema di controllo, non solo si mette in tasca un pacco di milioni, ma lo fa nella certezza di sapersi tutelato dall’impunità. Infatti l’uomo in questione dà a vedere di essere molto meravigliato dello scandalo che si fa attorno a quell’elemosina di trenta euretti.
Di più. In questa settimana sono state scoperte due enormi truffe alimentari: uova marce a decine di milioni al nord, pomodori marci a centinaia di tonnellate al sud. Al riguardo mi sono chiesto come sia stato possibile che degli imprenditori abbiano osato pensare di fare soldi con le frodi e le sofisticazioni alimentari in un Paese dove i controlli sanitari seguono standard assai rigidi. Dove i consumatori sono, pare che siano, avvezzi ad alti standard alimentari, a consumi sempre più sofisticati, nel senso della naturalezza e della qualità. A parte il fatto che tutta quella schifezza ce la siamo sbafata senza battere ciglio alla faccia del gusto raffinato, cosa se non la certezza dell’impunità ha condotto della gente ad arricchirsi in quel modo fraudolento e schifoso?
Un attimo. Come si è visto, nei mercati dove ancora circolano carabinieri e finanzieri l’impunità non è per niente garantita. Forse làè nel luogo dove la giustizia dovrebbe fare il suo conseguente corso? Forse, grazie ai sistemi di cui si è detto. Ma non basta. C’è un altro genere di certezza riguardo l’impunità che rende forti, che rende imbattibili e impunemente recidivi. L’impunità al cospetto della coscienza della nazione. L’introiezione da parte del popolo del principio dell’impunità, la rinuncia al giudizio da parte dell’opinione pubblica.
Uno può anche farsi, Dio non voglia, sei mesi di arresti domiciliari, se poi può tornare a fare quello che gli pare. Continuare a fare leggi, pelati, banche. Perché i suoi amministrati, i suoi clienti, i suoi consumatori, hanno smesso di giudicare, hanno smesso di ricordare, hanno rinunciato ad essere il controllo dei controllori. Hanno smesso di essere cittadini nell’accezione definita dalla modernità per tornare nell’alveo dell’antica tradizione detta della servitù della gleba. Questa è l’idea che si sono fatti gli impuniti, è in base a questa convinzione che giocano con strafottenza un azzardo quotidiano. Io non ne sono così sicuro, non può essere tutto così facile come al mercatino di San Nicola.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 18 dicembre 2005