Maurizio Maggiani: 25 aprile
Vorrei scrivere qualcosa sul 25 Aprile, vorrei che non fossero parole retoriche, stupide, inutili. Ci proverò. Lo farò con lo sguardo di mio padre, che io no, ma lui il 25 Aprile del ’45 c’era.
Mio padre è partito per la guerra a diciott’anni e mezzo. Si è fatto tre anni di Africa, dalle Depressioni dell’El Kantara, a Siwa. Ha bevuto per giorni la sua urina, ha mangiato per mesi datteri pressati e galletta secca, l’hanno rimpatriato moribondo di malaria. L’Otto Settembre si è messo per strada per tornare a casa sua. Ci ha messo due anni. È stato preso e arruolato nella Repubblica Sociale, è scappato, si è nascosto, si è rimesso per strada fino alle montagne del suo paese e lì si è fermato a fare il partigiano. Si è seduto a mangiare un piatto di minestra al tavolo di casa sua giusto un paio di giorni dopo il 25 Aprile. Era un ragazzo mio padre quando sono cominciate tutte queste cose, era un uomo fatto quando sono finite. Mi ha raccontato molto di quello che gli è capitato, lo ha fatto per tutta la mia infanzia e finché sono stato a sentirlo, ma non mi è mai parso di ascoltare le avventure di un eroe. Per quanto lo riguardava aveva fatto solo quello che andava fatto, che la vita gli aveva imposto di fare. Come tanti altri. È sempre stato un gran canterino mio padre, proprio come me, e da bambino mi faceva dormire con le sue canzonette. Così so tutte le canzoni partigiane, ma anche un bel po’ di canzoni fasciste, perché mio padre è cresciuto partendo da qui per arrivare fin là, senza sentirsi in dovere di dimenticare niente. La più bella canzone partigiana per me era quella del Battoglion Lucetti, che “siam libertari e nulla più, fedeli a Pietro Gori noi scenderemo giù”, ma mi commuovevo molto per una canzone che diceva “caro papà, ti scrive la mia mano, il cuore trema e io non so perché, le lacrime che bagnano il mio viso son lacrime d’orgoglio credi a me” Era la canzone fascista intitolata Orticello di Guerra. Così sono cresciuto con una robusta educazione libertaria sognando di essere il bambino che coltivava l’orticello per il suo papà in guerra. Be’ ho avuto un’infanzia ricca. Ma non di mezzi materiali: mio padre era un operaio. Ecco, a proposito, c’è una cosa di cui mio padre è andato sempre molto fiero. Ogni volta che intendeva rendere conto a suo figlio del fatto che non aveva grandi mezzi da offrirgli, si ostinava a precisare che comunque lui una cosa per me l’aveva fatta. Lo diceva in dialetto e questo dava alle sue poche parole un’efficacia che la lingua italiana non rende. Lo vedi, mi diceva, non ho niente da darti, non abbiamo niente, ma una cosa per te l’ho fatta: dovessi campare anche più di cent’anni, tu di guerre non ne vedrai mai più. Questo era il suo orgoglio, ciò che in cuor suo pensava potesse essere il suo eroismo. Aver messo le cose nel suo paese e nel mondo in modo tale che suo figlio non avrebbe mai subito quella che lui riteneva la cosa peggiore al mondo: un’altra guerra. Gliela avrò sentita dire mille volte questa frase, era davvero la sua ossessione quella di aver fatto qualcosa di buono e duraturo per me, di avermi offerto un gran dono. Sia chiaro che per mio padre quel dono non era affatto una cosa astratta; non c’era nulla di puramente ideologico nella pace che a suo avviso sarebbe stata di lì in poi la condizione naturale della vita. Era per lui l’era di pace iniziata il 25 aprile del 1945 una realtà assolutamente concreta, una condizione materiale molto semplice da identificare. E da spiegare.
Mio padre ha voluto che io studiassi, che lo facessi con zelo, che imparassi più cose possibili: studia, mi diceva sempre in dialetto, studia che tu adesso lo puoi fare. E voleva anche che io giocassi, mi costruiva lui stesso dei bellissimi giocattoli. Gioca quanto vuoi, mi diceva, che tu puoi giocare. E voleva pure che mangiassi quanto più mi sentivo di farlo, che mi rimpinzassi ben bene di quello che portava a casa. Mangia, mi diceva, mangia che tu adesso lo puoi fare. Ecco cos’era la pace per mio padre: un figlio che cresceva nutrendosi, conoscendo, essendo gioioso. Conoscenza, felicità, salute. Lui non aveva potuto, ma aveva fatto in modo che io potessi. Il suo orgoglio, il suo 25 Aprile, il suo eroismo senza gesti d’eroe.
Sono stati milioni gli uomini delle generazione di mio padre che hanno pensato le sue stesse cose. Uomini importanti, statisti, intellettuali e gente assolutamente comune. Alla fine la loro si è rivelata un’illusione: il figlio di mio padre ha visto più guerre di lui, e anche se alla fine della sua sembrava impossibile, altrettanto crudeli. Ha sbagliato qualcosa mio padre e la sua generazione? No, ha sbagliato il figlio. È la mia generazione che non ha da lasciare nessun dono a quella che verrà. È la mia che ha dimenticato in gran fretta l’enorme, eroico lavoro dei suoi padri. Per dire ai suoi, pochi, figli: ho da darti questo e quello. E questo e quello i suoi pochi figli se lo godono in un mondo molto peggiore di quello che a mio padre è apparso di vedere quando si è seduto al tavolo della sua casa per mangiare la prima minestra da uomo libero. E la disperazione morale in cui sono costretti a crescere, quei pochi figli lo rinfacceranno prima o poi ai padri. Toccherà a loro rendere onore al 25 Aprile, giorno dell’orgoglio dei giusti. E nel farlo li svergogneranno.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 24 aprile 2004