Maggiani, il peso della libertà
È contento e perplesso, Maurizio Maggiani, il primo giorno da vincitore del Premio Strega. Gira e rigira l’idea di essere uno scrittore consacrato, anzi “laureato”, suggerisco, come dicono gli inglesi. La risposta arriva da lontano, come se raccontasse una storia: “La mattina del premio mi hanno telefonato proprio dal ‘Secolo XIX’ per dirmi delle bombe di Londra. Ho rifiutato di scrivere un commento, sono invece andato a fare due passi, sono arrivato al Pincio. Dato che soffro di mal di schiena, dopo un po’ ero stanco e mi sono seduto all’ombra. E vedo che ero sotto il busto di Grazia De1edda, una scrittrice che mi è parecchio antipatica. Mi è venuto in mente che la prima immagine di me scrittore è la fotografia che mi ha scattato proprio lì “l’Espresso” nel 1987, quando vinsi il loro concorso dell’inedito. Avevo chiuso un cerchio. I premi non ti laureano. O meg1io, 1e lauree sono un attestato di quello che sei. Ho vinto il Viareggio, il Campiello e lo Strega. E adesso? Se una carriera letteraria si compendia nei premi allora devo cambiare mestiere”.
E poi le polemiche del premio lo hanno innervosito, nessuno, dice, si è speso nel dire se il suo libro, Il viaggiatore notturno, è bello o brutto: “Come se la mia creaturina fosse il contorno di altro”. Ma ha ben chiara anche l’altra parte: chi ha vinto tutto non deve dimostrare più nulla, è libero: “La libertà è un peso enorme. Per un certo penodo della mia vita ho fatto l’impiegato, e se c’era una cosa che odiavo erano gli orari, timbrare il cartellino. Poi nel ’91 ho smesso, ho deciso di vivere di scrittura. Magnifico. Ma dopoun paio d’anni ho fatto una grande scoperta. Che è confortante timbrare il cartellino qualche volta, avere una regola, avere un orologio. Un calendario. L’ho capito quando ho cominciato, nella mia grande libertà, a dover decidere sempre. L’alternativa è che non decido mai. Ma allora finisco 1a mia carriera. Umana, non voglio dire letteraria. È un peso
decidere tutte le mattine. A volte mi piacerebbe alzarmi, lavarmi, uscire e infilare un cartellino dentro un orologio”. La libertà però ha i suoi vantaggi: “Potrei decidere di scrivere il romanzo della mia vita,
quello veramente libero”.
Il che apre una prospettiva insolita. Cosa pensa di avere scritto finora, questo autore che di se dice “non sono tra i miei autori preferiti”, a cui gli amici rimproverano di non saper creare personaggi veramente cattivi, anche se “nei miei libri non c’è mai un vero lieto fine”? Il viaggiatore notturno è un libro sulla guerra in Bosnia: “Ho scritto un libro nella guerra, una storia nella guerra come può venire a me” precisa. “Che sia viva, in qualche modo”. E aggiunge: “Una parte buona del libro è quella dell’ultimo giorno dell’assedio di Tuzla, in cui una granata esplose durante la festa della gioventù e morirono 73 ragazzi. Ci ho messo anni a mettere insieme questa storia, l’ho raccontata in giro per l’Italia e l’Europa. Non pensavo di poterla scrivere, poi è successo. E 10 anni dopo ho ascoltato il sindaco e una psichiatra di Tuzla. È stato lncreclibiie. Iu non ero lì quel giorno. Ma se ascolti le loro parole, e leggi il mio racconto, sembrano le stesse persone”.
Si inalbera quando gli chiedo se lo scrittore, collocandosi altrove, può esercitare la funzione di coscienza critica: “Io non sono altrove. Quando scrivo un romanzo, mi metto su una sedia e comincio a sentire mai di schiena. E non mi passa, se scrivo. Non vivo altrove. Vivo dentro il mio mal di schiena. Non solo. Io vivo dentro la vita”. Provo a spiegarmi meglio, ricordo gli scrittori americani che hanno scritto dell’11 settembre: “L’intellettuale anglosassone si sente parte della comunità in quanto scrittore, giornalista, o regista teatrale. Gli scrittori, soprattutto. Stephen King, che è un mio divo, va alle riunioni di quartiere a discutere delle barriere architettoniche per gli handicappati. C’è l’idraulico, l’avvocato, e lo scrittore. È quello che rimane dei Padri pellegrini. In Italia no. In questo paese arretrato l’intellettuale vive il suo ruolo non come parte della comunità, ma in virtù del suo prestigio. Il punto più alto della carriera di Alessandro Manzoni non sono stati I promessi sposi, ma la nomina a senatore del regno. E il senatore sì che è altrove, fuori della vita”.
Ecco allora la letteratura che vive dentro la vita, secondo Maggiani: “Dedicare metà del mio romanzo all’ultimo giorno dell’assedio è stato un atto di giustizia per Tuzla. Con lo stesso impegno di quel tale, si parva licet, che alla fine della guerra di Troia se ne è andato in giro a rendere giustizia alla gente che è morta, alla città che è stata distrutta, a quelli che ci hanno perso la vita, a quelli che ci hanno perso l’onore. E andato in giro a cantarla, questa roba. Non è letteratura, è un fatto di giustizia. Farne una passione rende giustizia a chi non ha voce per potersela attribuire da solo”.
Maurizio Maggiani non sa da dove vengono le storie. Arrivano. Fermentano “in certi posti, vicino all’intestino, credo”. Quella del Viaggiatore notturno ci ha messo più di dieci anni, a emergere: “Non riuscivo a trovare la forma, per questo è quasi sperimentale”. E si prende delle libertà da scrittore: “Io non mi sento libero. Non credo di vivere in un mondo libero. Mi arrabbio continuamente per questa asfissia che sento. Morti a Londra. Morti a Madrid. Allora. Abbiamo dichiarato guerra al terrorismo. Poi fai i conti. Quanti generali sono morti? Quanti pendolari? Non sono i generali che devono fare la guerra? Certo non i pendolari. Ti sembra di essere libero in un mondo dove non puoi andare in metrò, mentre scorazzi in autoblinde, aerei, missili? E poi ti infili nella metropolitana. E non torni a casa. Ecco, soffro di asfissia”. Allora, la libertà dello scrittore: “È la libertà folle di l’iscrivere i testi, come l’iscrivere la storia”.
In questo romanzo l’ha fatto con testi di Charles de Foucauld, il legionario che si fece eremita e visse vent’anni nel deserto: “Una notte mi sono fermato a dormire, per necessità, nel suo eremo, l’unico posto dove potevi passare la notte. C’erano dei 1ibri. Uno suo, in francese, che non parlo, ne ho capito forse il 10 per cento. Poi quando mi sono messo a scrivere, ho deciso di non aprire le sue opere, di aggiungere io il resto. Di lui conoscevo solo una preghiera. Dice: Signore dona il pane a noi che abbiamo fame e dona sete e fame a noi che abbiamo il pane. È bella, vero?”.
di Bia Sarasini, tratto da Il Secolo XIX, 9 luglio 2005