Lingue morte
C’è questa bella notizia, che grazie ai finanziamenti della ricca signora Lisbet e alla costante applicazione dell’università di Londra, 400 lingue che stavano estinguendosi per mancanza di parlanti ora sono salve, salva se non la loro vita almeno la loro memoria, il loro suono, il loro lessico, la loro grammatica, il lavoro non è finito, delle 7000 lingue che oggi si parlano nel mondo, si prevede che ne moriranno la metà entro la fine del secolo. Ho dato un’occhiata alle 400 lingue salve, ce ne è anche una in territorio italiano, il bovese, la lingua parlata dai greci di Calabria, non c’è la mia, il castarnoeso del piano, la lingua del mio paese natale, Castelnuovo della Magra, della mia casa materna nel piano di Molicciara. In ciò che rimane della mia grande famiglia contadina io sono il più giovane a capirla e a parlarla ancora un poco, in tutto il paese quanti saremo, cento, duecento? Pochi anni ancora e frinirà, io stesso, non avendo più modo di ascoltarla e parlarla me la dimenticherò, già sento che sto perdendo l’inflessione e la cadenza, come se ricordassi una canzone ma non la sua musica. Le lingue muoiono, è un fatto, muoiono quando non servono più, quando il mondo di relazioni che le ha generate e che hanno descritto è finito., naturalmente le prime a finire sono le lingue senza scrittura, come la mia lingua, come tutte le lingue dialettali, quelle imparate dalla voce della madre, le lingue dell’intimità di una comunità chiusa, autosufficiente per ogni cosa, il lavoro, gli affetti, la socialità. Quando una lingua muore è dunque morto un mondo, e il mio mondo sta per finire. E sarò solo, veramente solo, per quello che ancora mi resterà da vivere, perché mi mancheranno le parole, e i pensieri che alle parole soggiacciono, che da quando sono nato mi indicano da dove vengo e da chi vengo. Ci sono cose che so pensare e dire solo nella mia lingua, quelle cose non le avrò più, e sono tante, e ancora di più sono le cose che mi sono state dette e che solo in quella lingua hanno senso, i principi della mia stessa educazione ad esempio, anche quelli dissolti prima che io abbia potuto trasmetterli. Se ci penso c’è una parola che mi mancherà più di ogni altra, è solo un monosillabo, una cosa da niente, ma quel monosillabo è tutto quello che il mio mondo, un mondo scabro e severo, aveva per indicare l’oggetto di un amore, per esprimere tutto l’affetto e la tenerezza che sapeva dare, un monosillabo che da quanto è povero, minimo, ho paura di sciuparlo scrivendolo, esponendolo ai ridicolo, non è mai stato detto per essere trascritto. Ecco, è: ‘gnò. Ne ‘gno. Tradotto in lingua risulterebbe ridicolo, qualcosa sul genere oh dolcezza, per noi era tutto il bene che ci era dato, tutto il bene che sapevamo dare.
Il Secolo XIX, 7 gennaio 2018