Le parole della sinistra

È tutta la settimana che ci penso e non ho dubbi, io so quale è stato il momento preciso, l’istante, in cui Raffaella Paita ha perso la sua corsa per la presidenza della regione. È stato un bel po’ di tempo fa ormai, proprio all’inizio della campagna elettorale, e, seppur indirettamente e senza azione della volontà, è stato questo giornale il luogo dove quella sconfitta ha preso forma. La forma di una manciata di parole, letali. Allora si era proprio agli inizi, il giornale aveva fatto giustamente notare come alla sua annunciatissima candidatura non se ne era contrapposta alcuna, né da destra, né da sinistra, Raffaella Paita allora scrisse una lettera aperta in cui si dichiarava pronta a qualunque avversario e contenta se si fosse palesato perché, ecco la frase fatale: “non mi piace vincere facile”. Quando la lessi quella frase, ricordo bene, mi intenerì. Per la sua innocente avventatezza, per la sua candida supponenza, per la sua gratuita baldanza. Come avessi sorpreso un ragazzino nel mentre del suo rituale di aggressione verbale all’inizio della partitella in cortile. Mi intenerii nel rivedere quel ragazzino che se ne torna a casa dopo aver incassato una bella rata di pere, il viso rigato dalle lacrime che ha cercato inutilmente di ricacciare giù. E indispettito, perché Raffaella Paita non era una ragazzina lì in cortile con la sua palla, ma il politico di lunga militanza e carriera che non poteva non sapere, e non aveva il diritto di ignorare, che se c’è una cosa che indispone il potenziale elettore progressista, tra le infinite cose che lo indispongono dopo decenni di insoddisfazioni, frustrazioni, delusioni, rimpianti, è la supponenza, la baldanza, l’infantile ancorché sincera sicumera. In particolare l’elettore progressista ligure, massimamente quello genovese, così incline ad apprezzare la fermezza adorna di modestia, la tonicità ammantata di riservatezza. E la prima cosa che pensa, e non dico che sia una cosa che gli fa onore, è: ah, sì, pensi già di aver vinto, non la vuoi facile? staremo a vedere. Di lì in poi è stata tutta discesa, a rotta di collo verso il dolente rammarico dell’astensionismo ragionato.
Parimenti sono addivenuto a suo tempo alla certezza riguardo il momento in cui la cosiddetta parte sinistra del Partito Democratico ha meritato la sua estinzione. È accaduto nel tragicomico istante televisivo in cui il suo più titolato e candidato esponente, l’affabile, ragionevole, giocondamente concreto Bersani ha lasciato che l’universo assaporasse appieno la sua geniale battuta che ha simpaticamente ribattezzato Il Partito come La Ditta. Affondando due secoli di storia dei partiti politici, uno di storia del suo, nella salace trivialità di un deposito merci, ponendo possenti fondamenta all’idea che i partiti non abbiano più alcun senso se non come locali adibiti al deposito e allo smercio, cos’altro è mai una ditta? Naturalmente il candido Bersani non voleva dire questo, e infatti un processo sommario con conseguente fucilazione sarebbe stata un’azione di giustizia spropositata, più adatto simulare un malore e l’onorevole uscita di scena verso un istituto riabilitativo per lungo degenti. Il fatto che sia ancora lì ad affannarsi nella Ditta è il segno inequivocabile della cancellazione del Partito. Da fervente e radicale mazziniano sono dell’idea del fondatore del primo partito politico moderno, che non c’è politica, né evoluzione, né rivoluzione senza partito, e non c’è partito senza militanti, e non ci sono militanti senza popolo. Purché sia La Giovane Europa e non La Ditta.
E così so anche il momento preciso in cui la cosiddetta sinistra radicale ha cancellato le proprie tracce non solo come realtà, ma come evenienza del reale. È stato quando, dopo un estenuato cogitare non scevro da furenti tenzoni ideologiche, tutto quello che avanzava dal Partito Democratico si è unito in una formazione atta a presentarsi alle scorse elezioni europee. In questa augurale occasione, si è data un nome estero per definirsi, Tsipras, facente riferimento al leader di un partito politico greco, Syriza. Una formazione politica che non ha per definirsi e per rappresentarsi una sola parola nella lingua dei suoi potenziali elettori, quali possibilità avrà mai anche solo di esistere ai loro occhi? Se non conosci parole che dicano chi sei, quali parole troverai mai per spiegare cosa vuoi e perché lo vuoi? E infatti quella formazione politica si è risolta a organizzare turismo sostenibile nella madre patria ellenica. Ora pare che abbia trovato una nuova parola, Podemos, in altra e più consonante lingua. Che per altro risuona di una certa familiarità agli orecchi dei liguri di Levante, cha hanno completato le caselle rimaste vuote così: Podemos ma a né Votemos. Spirito da due soldi s’intende.
È brutto ammetterlo, ma non è escluso che la sinistra non esista proprio, visto che non riesce a trovare nemmeno un pugno di parole decenti per sé. Quando le cerca ne trova di indecenti o inconsistenti. Tipo Altra Liguria. Cosa vuol dire? Altra da che e da chi, altra in che modo, altra perché? Altra può forse andar bene per negare, ma per affermare non afferma niente, e se non c’è pensiero positivo non c’è neppure azione positiva, e se non c’è azione positiva, se si tratta solo di professare alterità, allora ci sono formazioni ben più altre.
E pensare che in principio era il Verbo.

Il secolo XIX, 7 giugno 2015