Gentile signor De Gennaro
Gentile signor De Gennaro,
Mi hanno fatto rileggere la lettera che da questo giornale le scrissi nove anni or sono, mi hanno fatto rileggere la sua cortese risposta. Mi hanno chiesto di riscrivergliene una nuova. Ho accettato, e non perché mi sembri una buona idea, non la è, ma perché, ho visto, allora mancai della gentilezza di accusare ricevuta della sua. E ora lo faccio. Grazie della sua cortese risposta, signore. Grazie a nome della città di Genova, grazie a nome del Paese, se posso permettermi.
Ma quanto tempo è passato, signore, quanto tempo! Rileggendo la mia lettera mi sembra che allora avessi diciott’anni malapena, e furente e fidente chiedevo all’uomo dello Stato di ottemperare al dovere della verità. Come se non avessi già vissuto cinquant’anni in questo Paese, come se non avessi già dovuto sapere da un pezzo che non sono queste le cose che si chiedono, qui, agli uomini dello Stato. Come se non avessi già la certezza intellettuale che a questo Paese sono sempre state servite, perché tirasse avanti, tre o quattro verità, o nessuna. Ma allora, a un anno dai “fatti”, ero colmo di un turbamento che pretendeva, per non farsi angoscia distruttiva, di credere, ancora per una volta, che le cose potessero andare diversamente da come erano sempre andate, gli uomini condursi difformemente dall’usuale, e lo Stato essere il luogo della verità dei fatti civili. Credo che fosse un sentimento comune nella città di Genova, che, con quel suo eroismo tutto interiore, si era operata giorno dopo giorno a ricostruire se stessa e la propria anima civile. Una città anch’essa, ancora una volta, diciottenne, che chiedeva a unico risarcimento dell’affronto subito solo verità; che della verità aveva bisogno per non separarsi dalla speranza di poter crescere ancora, e farlo nella giustizia, e nell’ottimismo che la giustizia genera. Lei rispose che non potevamo che essere fiduciosi, che lei stesso, e con lei i suoi collaboratori, si assumeva la responsabilità dei fatti, sentendosi con orgoglio un servitore dello stato che nei giorni del luglio 2001, in quello che già allora era passato e da allora resterà imperituro nella storia come “il G8 di Genova”, ha compiuto il suo dovere. Con la perizia e la coscienza che ci si deve aspettare. Cortesemente rispose, e avremmo voluto anche crederle.
Quanto tempo da allora signore, quanto tempo!
Di cosa potremmo corrispondere, oggi, io e lei, noi e lei? Non trovo più niente da chiederle, non aspetto nessuna risposta. Oggi ho sessant’anni, e nessuna possibilità, né speranza, di tornare ad averne diciotto, tornare a sperare che le cose e gli uomini, almeno per una volta, possano essere e andare in modo diverso da sempre. Le verità su quei giorni stanno tornando ad essere quelle di sempre, le verità a cui è condannato questo Paese: una, nessuna, centomila.
Lei e ancora più servitore dello Stato di allora, con maggiori responsabilità e oneri, così la maggior parte dei suoi collaboratori e colleghi di quel tempo. Diversi tra voi sono stati giudicati in uno,due gradi di giudizio con accuse che ai servitori dello Stato non devono che suonare infamanti, abominevoli: istigazione alla menzogna, abuso, violenza…. Diversi tra voi hanno subito, per quei reati abominevoli, delle condanne. Per una simmetria che sfuggirebbe a un estraneo all’Italian Style, più significative sono state le condanne, più ferma e significativa l’attestazione di fiducia e di stima da parte degli uomini che rappresentano lo Stato sotto forma di governo, di parlamento, di altri alti servitori. Più infamanti le accuse, più significativi gli avanzamenti di carriera. Lei sa, signore, in quali paesi e in quali circostanze storiche e politiche gli alti funzionari dello stato giudicati per quei reati ricevono un trattamento così lusinghiero dall’apparato politico, e non sono paesi e circostanze in cui, sono certo, nemmeno a lei piacerebbe servire.
Così, a dieci anni da quei giorni, a nove da quella fidente mia domanda di verità e dalla sua cortese risposta, di cui ancora la ringrazio, di cosa potremmo corrispondere ancora intorno a quel tema io e lei, noi e lo Stato? Su niente. E se ancora qualcuno tra i cittadini della città di Genova ha la grazia dei diciotto anni e il fervore speranzoso di quell’età, sarà opportuno che ne faccia miglior uso di quanto non ne ho fatto io ancora un anno dopo quelle notti della nostra Repubblica.
Tratta da “Il Secolo XIX”, speciale G8 14.luglio.2011