Festa della Memoria?
Martedì scorso si è celebrato in tutto il Paese il Giorno della Memoria. L’ONU stesso ha decretato il 27 gennaio Giorno della Memoria, memoria dell’Olocausto nazista, memoria della Shoah. È stato scelto il 27 gennaio perché in quel giorno del ’45 le truppe sovietiche sul fronte ucraino arrivarono ai cancelli di Auschwitz, li aprirono e trovarono quello che trovarono. Non è che quel giorno fosse finito qualcosa, i campi di sterminio e di concentramento lavorarono in territorio tedesco fino alla resa nazista, fino ai primi giorni del maggio dello stesso anno, ma cominciò qualcosa. Cominciò il tempo in cui nessuno poteva dire di non sapere, di non aver saputo, di poter dimenticare. Il Giorno della Memoria è anche una legge dello stato italiano, una legge firmata dal governo Amato nel luglio del 2000. A proposito di memoria, è curioso notare come, rovistando nelle rassegne stampa dell’epoca, nelle dichiarazioni ufficiali riportate non si facesse mai cenno al fatto che Auschwitz fosse stato liberato da truppe sovietiche, ma piuttosto da anonimi “alleati”. Credo che quella sorta di pudore, o di riserbo mnemonico, fosse dovuta al fatto che quello Amato era un governo di centrosinistra, e a quel tempo si stava particolarmente attenti a non dare l’impressione di nostalgie veterocomuniste. Oggi no, oggi si dice tranquillamente che furono truppe del famigerato regime comunista di Josif Stalin. Ma non è di Stalin che voglio parlare, bensì della Memoria, così com’è con la lettera maiuscola. E allora racconto questo piccolo episodio che mi è stato riferito da un’amica insegnante. Che lunedì al suono della campanella ha salutato i suoi studenti che hanno ricambiato. Uno tra loro, uno tra i più attenti e studiosi, un alunno modello, lo ha fatto, in placida, serena acquiescenza, così: allora profe ci vediamo domani per la festa della Shoah.
Sì, certo, perché no? Il Giorno della Memoria è un’istituzione, l’istituzione si fa celebrazione, la celebrazione è, nella sintesi di qualunque studente, che non si fa lezione, e se non si fa lezione allora il Giorno della Memoria è festa, la festa della Shoah. Per inciso, la visita degli studenti a Auschwitz, così encomiabile, non è forse programmata negli istituti come “gita scolastica”? Quest’anno, dice la profe con giustificato orgoglio, li ho convinti, non si va in gita a Parigi ma si va a Auschwitz. Ma è mai possibile andare in gita a Auschwitz, essere in festa per la Shoah? Non credo. Allora cosa accade alla memoria quando ci mettiamo su la M maiuscola, quando la istituzionalizziamo? E se non lo facessimo che ne sarebbe della memoria senza la maiuscola?
Io vivo nella memoria, a volte mi viene da pensare di essere una Colonna Traiana vivente, avvolto, scolpito dalle memorie della mia storia e della storia collettiva della mia gente, dei miei compagni umani. Sono cresciuto nella memoria, quando portare memoria era per la classe dei poveracci, dei disgraziati morti di fame, dei perseguitati per ragione di giustizia, l’unico strumento per non soccombere all’annientamento, alla inesistenza, all’alienazione. Ricordo ogni cosa che mi è stata detta, che mi è stata fatta vedere o sentire. Ma in casa, per la via, nel quartiere, non c’è mai stata l’ora o la giornata della memoria. Fosse così non mi ricorderei niente. Perché istituzionalizzare e celebrare è ossificare, mineralizzare, marmorizzare, ingessare, come sono irrimediabilmente marmorei e ingessati i celebranti, talvolta imago mortis. Mentre la memoria o è viva, plasmatica, movimentata, vivida, mutevole, o si consuma e decede. A differenza del celebrare, il portare memoria non ha relazione col dogma, e ne ha di traslato con la verità. La verità è equivoca, lo è da quando le hanno messo la V maiuscola, appunto, e sono le dittature a volercela mettere la maiuscola. La memoria è sincera, anche quando si contraddice, ed è nella sua natura movimentata di contraddirsi. Per questo chi porta memoria è in cerca di altre memorie, e le mette in relazione, confliggenti e concordanti, e così si accrescono in verità, verità degli uomini, verità delle cose, verità della storia, senza bisogno di metterci la V maiuscola. Per questo la memoria è un oggetto estremamente delicato, fragile, bisognoso di costante intenzione e di cura assidua, una cura collettiva, di comunità familiare, civica, elettiva, che non è esercizio di legge, ma pratica del vivere. Per esistere davvero Auschwitz, o la fame di mio padre, devono esserci tutti i santi giorni, da qualche parte qui con noi. Non qui con me, qui con NOI. E questo non è il tempo della memoria, perché non è il tempo della comunità. È il tempo delle celebrazioni palliative del passato sentimento comune. E così un ragazzo, ovvero l’unica speranza del perdurare della memoria, può dire senza alcuna intenzione di insulto o senza distrazione, ma per logica conseguenza, che il 27 gennaio è la festa della Shoah.
Il Secolo XIX, 1 febbraio 2015