Essere Francesi

E così adesso siamo tutti francesi, ed essendo tutti quanti francesi siamo anche tutti Charlie Hebdo. Come era atteso, il primo francese d’Italia è stato il primo ministro Matteo Renzi, che, con la velocità e lo sprezzo del pericolo che tutti gli riconoscono, era già francese due ore dopo il massacro. A seguire il popolo, con in testa i suoi rappresentanti, i suoi pensatori, i gonfaloni. Come tirarsi indietro? Oltretutto è gratis, ancora per qualche giorno essere francesi e essere perdipiù vignettisti parigini è in offerta lancio gratuita, Poi si vedrà. Purtroppo già adesso segnali contradditori indicherebbero che il fronte scricchiola, e non è una bella cosa. Dovremmo dare all’Europa e al mondo un’idea di nazione compatta, eticamente e non solo economicamente assolta da ulteriori compiti a casa, mannaggia. Nei punti deboli del fronte colloco anche me stesso; nutro un certo scetticismo nell’immedesimarmi in qualcun altro a ufo, mi piacerebbe vedermi invece francese, o americano, o magari anche afgano o nigeriano, quando la cosa risulterebbe avere un suo costo. Sì, avrei una gran stima di me stesso se per essere Chalie Hebdo dovessi mettere in gioco la mia stessa vita.
A proposito di costi, sarei grandemente interessato a sapere se quelli che ieri erano francesi, lo erano anche un’oretta prima del massacro, se lo saranno tra un anno. Secondo me, pochi. Essere francesi vuol dire qualcosa. Vuol dire, ad esempio nutrire una vera e propria passione per la laicità dello stato. È una passione che costa, costa costruirsela e costa farne la manutenzione. Pare evidente che i francesi siano disposti a pagare anche salata la loro passione, almeno finora. Pare anche evidente che questo paese, e i suoi ultimi trenta, quaranta governi, diciamo da Rattazzi in poi, non nutra il minimo interesse per questa spinosa faccenda della laicità dello stato. Anzi, tutto sta a indicare che non se lo sognano nemmeno di metterci mano, e, appena un qualunque parlamento e governo ha un po’ di tempo per le varie e eventuali, legifera e decreta in senso opposto. E vedi te che intorno a quello che adesso si bisbiglia appena, ma che si prenderà tra non molto a brandire ad alta voce, e cioè in merito all’andreottiano “in fin dei conti se la sono andata a cercare”, la singolare passione della laicità sarà in testa alla deplorevole leggerezza che tanto spazio ha concesso all’avverarsi del massacro attuale e dei prossimi venturi. Siamo francesi sì, ma in occasione delle esequie, ai funerali siamo tutti parenti.
Per non parlare poi del “siamo tutti Charlie Hebdo”. Già, come no. Mi piacerebbe chiedere ai zelatori della libertà di stampa, e di satira, che in queste ore si stanno sbracciando per pubblicare, o, meglio, far pubblicare le vignette del giornale parigino, se pensano davvero che in questo Paese un tal giornale potrebbe avere vita più longeva del suo numero 1. Ma manco quello, mi facciano il piacere. C’è una ragione o è un puro caso che in Italia sono vent’anni ormai che non esce un solo periodico satirico? Non che in Francia Charlie Hebdo abbia vita facile. I francesi si pagano, salatissimo, il lusso di tenere in vita la libertà di satira nella sua versione più radicale, e sconcertante, ma hanno i loro, frequenti, ripensamenti. Dai vecchi tempi del suo antenato Hara-Kuri a oggi sono più le volte che è stato ritirato che quelle che è stato distribuito. E non che i lettori francesi se lo vadano a comprare in massa, anzi, è sempre lì lì per fallire. Cionondimeno c’è, anche se piace poco, anche se fa di tutto per non farsi piacere. Ma qui, dove smaniamo per l’attentato alla libertà di opinione così europea, così tutta nostra, così essenziale per la nostra occidentale identità, non esce e non uscirà mai. E non perché se la piglia con Maometto, ma perché se la piglia anche con tutti gli altri. In un modo che non è semplicemente irriverente, ma è a volte disgustoso, a volte intollerabile, a volte geniale. In ogni caso, qui, querelabile per milioni di milioni, facilmente condannabile per vilipendio della religione, vilipendio di capo dello stato nostrale e estero, diffamazione, atti osceni, attentato alla Costituzione, banda armata, istigazione alla prostituzione e al genocidio, eccetera. Qui, e non so dire altrove nell’Occidente, l’odiosa, vetusta, macchinosa censura è stata sostituita da un uso spigliato, agile e straordinariamente efficace della querela. Un giornale e un giornalista, satirico e no, che non abbia alle spalle notevoli risorse finanziarie e si piglia tre, dieci querele e tre, dieci milioni di richieste di risarcimento, e anche una sola, e, per le ben note leggi di italiche probabilità, non lontana possibilità che la giustizia faccia un corso non diritto ma storto, con che spirito si alza la mattina e si mette al tavolo da disegno? A disegnare le vignette di Charlie Hebdo, magari. Perché, ripeto, non c’è un solo giornale satirico nelle edicole d’Italia? Giornale di libera, infame, scosciata satira politica e di costume? E tra questo popolo piegato, angosciato e rancoroso, quanta parte è lì’ che aspetta di comprarlo? E tra questi zelatori della libertà, quanti sono pronti a dare persino la vita perché la libertà assuma la specie di materia e non resti una chiacchierata in tv?
Oh, ma non costa niente essere Charlie Hebdo nel giorno del, suo, martirio in diretta satellitare. Beh, sì, costa il canone del satellite, o quello, meno oneroso in verità, del digitale terrestre.
Secolo XIX, 11 gennaio 2015